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Spike Lee, con BlacKkKlansman, crea un ibrido che non trova riposo: è nostalgia blaxploitation, tentativo di excursus storico, commedia, quadro umanista; una pluralità di intenzioni che si riflette in un accumulo di stili in contrasto e in una sceneggiatura poco equilibrata. Le parti peggiori sono quelle in cui Spike Lee insegue ambiziosamente la Storia: è lì che il suo cinema si appesantisce, si fa sermone grondante retorica, del tutto privo del potere di denuncia propri dell’incendiario Detroit o, sul versante documentario, del colto e toccante I am not your negro. Il discorso di Kwame Turè, nella prima parte del film, è estremamente rappresentativo delle caratteristiche deteriori della regia di Lee: una scena didascalica, pedante, in cui il desiderio del regista di farsi propugnatore di un pensiero ed una missione interferisce con il cinema, caricandolo di inutili ampollosità linguistiche (come i primissimi piani sui volti estatici degli astanti; una involontaria parodia dei video dei Jackson 5).
Ma quando il film abbandona l’ambizione dei toni alti e si fa puro racconto, il regista ritrova la verve talentuosa e la capacità di analizzare fatti e personaggi, sintetizzando l’azione con movimenti essenziali e focalizzazioni narrative. La parte centrale, che vede l’infiltrazione nel gruppo KKK, è la più riuscita ed appassionante: e non solo per l’economia del racconto di cui è capace Lee, ma soprattutto per la presenza di un attore come Adam Driver. Misurato e naturale, Driver non sembra mai recitare: semplicemente è. Affida a poche sfumature, a cambiamenti impercettibili dell’espressione, ad un uso naturale ed espressivo del corpo la caratterizzazione di Flip Zimmerman. Al contrario, il suo alter ego John David Washington nei panni di Ron Stallworth resta un simulacro, imitazione compiaciuta e caricaturale dei miti della blaxploitation. La recitazione manierata di Washington è la diretta conseguenza delle incertezze di Lee, indeciso se fare di BlacKkKlansman un divertissement settantesco (in omaggio a film come Shaft, Superfly e Coffy) o un biopic impegnato. Driver, spontaneo e taciturno, ci conduce all’interno della cellula KKK, i cui membri Lee sa dipingere in pochi tratti efficaci. Nella loro ignoranza e follia redneck vi è il cuore oscuro, rurale e violento dell’America.
Tutta la parte centrale è tesa, claustrofobica, un constante confronto di sguardi e corpi come “ingombri” fisici in competizione, alla ricerca di uno spazio e di una identità. Lee usa alla perfezione il contesto spaziale – la povertà delle abitazioni, la fredda natura del Colorado, le strade di quartieri retrogradi, bloccati in una sospensione temporale. Questo è il Lee migliore, brillante narratore e umanista; ma viene soppiantato dal predicatore, che si serve delle facili armi del sensazionalismo “sporcando” un cinema altrimenti capace di equilibrare pulizia narrativa e risposta emozionale.
Marcella ho apprezzato la tua recensione. Sono d’accordo sul fatto che abbiamo ritrovato lo Spike Lee dei giorni migliori. Anche io ho scritto una recensione di Blackkklansman sul mio blog wordpress se ti va di leggerla. Poi fammi sapere cosa ne pensi.
Rieccomi! Ma quanto è stata figa l’ultima telefonata tra David Duke e il vero Don Stallworth? Nel cinema in cui l’ho visto Blakkklansman si è preso l’applauso a fine proiezione, e secondo me buona parte del merito è proprio di quella spassosissima scena! 🙂
Sì, fenomenicamente sono più positivo, ma in linea di massima non mi discosto tantissimo dal tuo giudizio: https://matavitatau.wordpress.com/2018/10/14/blackkklansman/