“Proietteremo i vecchi film come fantasmi su un muro.”
Quella di Oliver Stone alla 56a edizione del Pesaro Film Festival non è che un’apparizione fuggevole (il regista è impegnato in una serie di incontri nelle Marche), ma comunque straordinaria. Poter parlare con un artista del suo calibro è un’occasione rara; Stone è una parte importante della storia del cinema del ‘900 e ha continuato, negli anni 2000, a sperimentare, mettendo in discussione se stesso e i propri codici (si veda il sommesso, intimo Snowden, 2016).
E’ il regista che prima di Spielberg ha rivoluzionato il cinema di guerra (a partire da Salvador e Platoon); è l’autore che ha mescolato materiali, generi e stili appropriandosi dei modi aggressivi delle news – per poter esercitare una feroce critica dall’interno – nell’iconoclasta Natural Born Killers; ha ridato forma al biopic trasformandolo in un laboratorio estetico e ideologico, anticipando il cinema spurio di Adam McKay. Ma Stone ha anche dimostrato un innato classicismo (Tra Cielo e Terra) e senso dell’entertainment puro (Ogni maledetta domenica); ha lavorato dentro Hollywood e contro Hollywood, fino a scarnificarsi e disilludersi, per tornare in tempi recenti a un cinema più autentico, spoglio, desideroso di realtà attraverso il documentario.
Nel suo percorso artistico ed esistenziale Stone non ha mai smesso di “inseguire la luce”: e Chasing the Light: Writing, Directing, and Surviving Platoon, Midnight Express, Scarface, Salvador, and the Movie Game è il titolo della sua autobiografia in uscita in questi giorni, edita da La Nave di Teseo.
“L’italiano è una lingua bella e sonora: infatti il mio libro di 320 pagine, nella vostra traduzione, è diventato di 500; però lo hanno intitolato Cercando la luce e non inseguendo. Ma non fa niente, è sempre una questione di luce.”
Il suo spirito di sfida non risparmia nemmeno il covid: “Covid sucks, non sappiamo nemmeno cosa sia; è come The Blob, il vecchio film horror; ma è anche come trovarsi in un film di Lars Von Trier, dove tutti si muovono sentendosi minacciati e aleggia la morte; ma hey, tutti moriremo prima o poi, quindi vediamo di farci l’abitudine.”
Più amare, invece, le sue riflessioni sullo stato attuale del cinema: “In questo momento il movie business è morto – dead, dead, dead – ma possiamo sempre proiettare i vecchi film, come fantasmi su un muro. E qualche volta anche film nuovi, ce n’è qualcuno davvero buono: mi è piaciuto Joker, ma anche Uncut Gems e The Irishman. E’ sempre più difficile lavorare, per via delle corporazioni, del marketing…”
Chasing the light è un libro scritto dalla necessità di tornare sul passato per ripensarlo e soprattutto rivivere il sogno. “Non è forse il miglior momento per far uscire un libro, ma avevo bisogno di essere sincero con me stesso, esattamente come cerco di realizzare film onesti. Dovevo fermarmi, tornare indietro e ripensare la mia vita più consapevolmente. I primi quarant’anni sono stati importanti, fondativi: la giovinezza è il momento in cui si costituisce il sé. Da ragazzo problematico, dalla vita difficile, turbato prima dalle esperienze familiari e poi dal Vietnam, sono diventato un uomo che ha potuto concretizzare il suo sogno di fare cinema; in un solo anno, il 1987, ho realizzato ben due film di guerra, Salvador e Platoon.
Le parole più appassionate le riserva alla sua fede nel cinema come espressione di protesta: “Il cinema è una forma d’arte e ha il dovere di esprimere un dissenso – politico, sociale, culturale; di protestare contro una realtà che non sente propria. Non posso fare a meno di manifestare la mia aperta critica nei confronti di una vita contemporanea così segnata dal conformismo. Sono sempre stato un ribelle, ho sempre lottato, lottato, lottato… In questo momento il governo del mio paese è molto duro, nazionalista, non vuole essere criticato; si trova in una posizione molto pericolosa. Io ho sempre espresso le mie idee senza compromessi; ho sempre sostenuto che la guerra nel Vietnam fosse una guerra stupida, e ho cercato di dirlo attraverso il cinema. Ma gli Stati Uniti hanno successivamente ingaggiato altre guerre, quindi non è servito. Si sono ripetuti gli errori del passato, ma io continuo a pensare che quel racconto andasse fatto.
Recentemente, nel 2016, ho realizzato Snowden, un’opera cui sono molto legato e che ritengo estremamente importante: ho cercato di esporre un caso reale, verità che molte persone non vogliono conoscere. Il cinema che vorrei vedere è questo: un cinema della realtà, mentre adesso siamo oberati dal fantasy: il pubblico viene rassicurato, si sente al sicuro. E’ un cinema che nasconde la verità di un’America la cui situazione è estremamente precaria.”
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[Parte di uno speciale che comprende
[Parte di uno speciale che comprende The Elephant Man –
Il film è tra le opere migliori di Burton e dispiega in poche inquadrature lo scheletro gotico/espressionista su cui si articola il suo cinema, rovesciato sullo spettatore con una spinta gioiosa e blasfema che raramente si riscontrerà nelle opere successive. Con Beetlejuice, Burton porta una visione di purezza iconoclasta derivata dallo spirito della Hammer films, che aveva studiato e amato. Di quell’innocenza Burton si faceva portavoce in quest’opera senza coerenza strutturale, episodica, disobbediente quanto l’antieroe del titolo; una sorta di riscatto artistico al suo disagio giovanile, in forma di sberleffo irriverente.
Curato, colto, citazionista, un’esplosione fertile di contrasti, specchi, fantasie alle Escher e mostri in stop motion, il film raggruma in un nucleo di attrazione quelle linee che diventeranno “classiche” dell’universo burtoniano, nel momento antecedente alla loro formalizzazione. Ed è anche l’opera in cui la malinconia dell’autore si dispiega senza soluzione né facili consolazioni disneyane. Nell’apparente composizione finale dei dissidi, la rottura io/mondo espressa in Beetlejuice è insanabile ed il disadattamento totale, per i morti quanto per i vivi. In questa fase delicata ed iniziale del suo sviluppo come autore, Burton cercava di ancorare e far convivere la sua sensibilità all’interno della realtà; prima di arrivare all’inoffensivo Mad Hatter abbiamo le incazzature di Beetlejuice. Michael Keaton, suggerito da David Geffen (Burton avrebbe voluto Sammy Davis jr.) in soli 17 minuti sullo schermo dà vita al ruolo più difficile e definitivo della sua carriera. Gran parte delle battute di Beetlejuice furono filmate in presa diretta: Keaton è perfetto nella sua incarnazione contemporanea della malvagità: orribilmente mediocre, seriale, pubblicitario. Come “Bio-esorcista”, non è differente da un venditore di automobili. La sua ipocrisia strisciante, il suo mercanteggiare impediscono l’idea di serietà persino nel male – Beetlejuice è un buffone, ed in questo persino amabile, e umanamente frustrato: conscio della sua insufficienza, nei suoi monologhi si lascia andare ad elettriche esplosioni di rabbia.
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La “maschera” è liberatoria, permette di esprimere una diversità aliena da convenzioni sociali e di lasciar fluire le passioni (a differenza del personaggio tradizionale del fumetto, Batman uccide). Per la prima volta Bruce Wayne non viene presentato come una copertura ma come un vero personaggio in antitesi con il supereroe; ed il gioco sottile, sfumato del regista è questa alternanza continua di livelli, che si esprime sul piano linguistico ma anche estetico. L’eroe scivola e si confonde coi suoi villains, ma gioca dialetticamente anche con se stesso: dove risiede l’io più autentico, in Wayne o Batman? Chi limita l’autenticità dell’altro?