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Dopo La Grande Scommessa, Adam McKay realizza un film personale, complesso, che supera la deteriore ironia di cui è intrisa la cultura americana e di cui parlava, amaramente, David Foster Wallace (decretando come il più grande fallimento dell’ironia la sua incapacità di costruire qualsiasi cosa per rimpiazzare le ipocrisie che demolisce); Vice è sicuramente un’opera molto pià matura della precedente, in cui i tratti distintivi del cinema di McKay restano presenti ma all’interno di un progetto più denso e chiaroscurale: i tempi narrativi hanno recuperato una “convenzionalità”, una dimensione meno convulsa ed isterica, come se McKay avesse voluto recuperare un “classicismo” (visibile soprattutto nelle istanze narrative della prima parte) per meglio allestire il grande affresco della sua America maledetta.
Un’America che, nondimeno, McKay ama: la sua disillusione e forte affezione per il suo paese è evidente, al punto che spesso i suoi grandi ritratti negativi si illuminano d’una luce cupa, a glorificarne la caparbietà di self made men; Vice è un magnificat al contrario, è la biografia d’un male che avvolge capillarmente il paese e si spinge dai piani alti del potere fin negli anfratti delle comunità rurali, da dove Cheney proviene: un’origine, la sua, di selvatica sopravvivenza. E sebbene il film prenda posizioni politico/sociali nette, resta un sapore di ambiguità nella statura nera dei suoi personaggi: Bale e la Adams, pur nella totale disintegrazione morale, riescono a disegnare un volto umano, un deviato senso della tradizione al loro operato. McKay fa sì che Dick e Lynn Cheney conservino una cupa complessità shakespeariana (esplicitata in uno scherzoso dialogo tra i due, ma ancora di più nel monologo finale di Cheney rivolto al pubblico) e non li riduce a grotteschi emblemi del male.
Si pone però il problema “etico” del film di McKay, inerente il suo fare cinema: il regista e sceneggiatore americano resta aderente ad un’idea di cinema “stretto”, che induce lo sguardo dello spettatore all’interno di un “imbuto” narrativo: Vice è l’opera di un autore-demiurgo, intenzionato ad educare, illuminare, intrattenere il suo pubblico lasciandogli pochissima libertà interpretativa. E’ un cinema brillante, ma di manifesta qualità didattica.
Vice è un vero e proprio “film a slide” esplicativi: il regista accumula fermo immagini, zoom illustrativi, metafore lapalissiane (il coltellino svizzero, le tazze da tè), didascalie; il suo uso del montaggio, l’umorismo basato su inside jokes tanto inerenti la storia politica quanto l’industria cinematografica (talora geniali, come il finto finale), il riciclo spregiudicato di forme del comunicare fanno del cinema di McKay un vero sistema estetico/filosofico, che pur con i suoi obblighi fruitivi (lo spettatore è un mero allievo) possiede una forza originale e profonda.
McKay non si fa scrupolo di servirsi delle stesse tecniche persuasive utilizzate da quelle Fox News che disprezza; Vice è un’opera di grande intelligenza, che sfrutta i clichè del giornalismo più manipolatore per raggiungere l’audience più vasta; se “il medium è il messaggio”, McKay mette a nudo l’America sfruttando le sue stesse armi comunicative; in tal senso, Vice è un’opera linguisticamente colta,”chomskiana” per il suo carattere generativo: è un film che si espande trasformando in forme creative codici stabiliti.
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