****
La divisione del cinema in categorie, in classi di merito subordinate all’attribuzione di uno sguardo più o meno “autoriale”, non serve se non a creare guerre critiche che poco importano agli spettatori, innamorati di Joker al punto da concedersi ripetute visioni e trasformarlo in oggetto dall’aura mitica.
Quello di Phillips è un film che sta riconciliando un’ampia parte di pubblico con modalità differenti di fare cinema: lo smarrisce, lo conduce attraverso sentieri inaspettati, lo pone di fronte a un antieroe il cui sentire allaga lo schermo e trabocca oltre i limiti dell’immagine in un dialogo emozionale. Dopo tanto cinema commerciale rigido, conservatore, dagli eroi netti e patriottici, i multiplex stanno conoscendo la contaminazione di un Joker/Joaquin Phoenix che porta su di sè le inquietudini, la sofferenza, la rabbia di una generazione: si tratta di un personaggio che soddisfa il bisogno giovanile di anarchia, e che nel viso del pur quarantacinquenne Phoenix scrive – anzi intaglia nei suoi lineamenti scavati – un dolore espressionista, un rapporto drammatico con il reale. Joker è deformazione del corpo, sofferenza che muta in follia e si fissa in un riso contorto di disperazione; ma è anche ribellione anarchica, “danza” di sfida, rivincita sulla generazione dei padri.
La regia di Phillips non è radicale, ma “sporca” e dichiaratamente anti-intellettualista: voler ricercare una purezza di sguardo fa torto a un regista che così bene interpreta il sentimento del disordine contemporaneo: il presente è fusione di linguaggi, estetica spuria. Joker non ha uno stile ma un insieme di stili, memorie e ricordi: è corteggiamento del cinema dei padri – The King of Comedy di Scorsese è presente soprattutto come palette di colori – ma allo stesso tempo ribellione e superamento, attraverso una vocazione spettacolare e la frantumazione del racconto in episodi (quasi “instagram stories”). Non c’è nulla di veramente nuovo in Joker, ma il modo in cui tratta la materia narrata dà vita a un oggetto originale, dotato di una sua indiscutibile verità.
In realtà nel film di Phillips c’è più A star is born (nel tipo di approccio al cinema, non nei risultati) di Bradley Cooper che Taxi Driver: Joker vuole veicolare emozioni. Nasce esibizionista, cerca finalmente quel palcoscenico negato. Cinema lontanissimo dai cinecomics: pur conservando lo schema della genesi del villain, tradisce il genere con un esistenzialismo aspro e sofferto.
Phillips è un regista di talento che fa della sua esperienza e disinvoltura tecnica un mezzo artistico; il suo corteggiamento dei grandi, il suo “voler essere” lo accomunano a Joker: uccidere ciò che si è amato, in un gesto ultimo di rivolta. Ecco allora i primi piani fin quasi dentro gli occhi e il corpo di Phoenix, che occupa ogni inquadratura, la abita, la piega alla propria sofferenza; ecco le prospettive oblique, i repentini cambi stilistici, l’amore per il musical di cui viene smascherata l’illusione: la danza di Joker è un movimento sul baratro, funebre e terribile.
Phoenix, attore/martire/rivoluzionario, porta la sua performance ad un abisso tragico che pone lo spettatore in stato di battaglia con i propri sensi: “L’arte è il sangue del nostro cuore “, dichiarò il celebre pittore espressionista Edvard Munch; e il Joker di Joaquin Phoenix, livido e sanguinante, è figlio della violenza del presente.
L’inquietudine Phoenix la manifestava già nel “Il Gladiatore” dove, a mio parere, sovrastava Crowe rapidamente appagato e già attore di routine. Sono convinto che meritasse la Coppa Volpi a Venezia, e il Martin Eden ( attore sensibilmente impalpabile come una poesia) avrebbe meritato la menzione speciale della giuria come film. Detto ciò, anche se la sua recensione toglie con intensa attenzione, l’opera da ogni possibile Luna Park personalmente la penso come Scorsese, forse anche peggio nei confronti dei comicmovie targati Marvel, ma sicuramente la mia è un posizione pregiudiziale, quindi errata (come tante della cose che mi diverto a sparare). Non avevo intenzione di andare a vederlo, sono sicuro di poterne fare a meno, ma alla fine andrò a godermi questa risata infinita. Grazie
Il 11/10/19, Frammenti di cinema – di Marcella
Pingback: Joker: qualcuno chiami Scorsese
Chiaro che, in un periodo storico in cui l’arte cinematografica langue sotto il peso della sovrabbondanza spettacolare, a anche a causa della “nuova mitopoiesi supereroistica” (apoteosi del nulla in cui siamo, ahimè caduti) è molto evidente che un film, tutto sommato mediocre, rispetto ai suoi modelli di riferimento e che, in oltre, attrae il pubblico dei cinefumetti (e questo magari aiuta all’avvicinamento verso un cinema di maggior spessore) finisse con l’essere celebrato con l’appellativo di capolavoro, tuttavia, si tratta di un’opera falsamente rivoluzionaria, la quale tratta la sua star e la performance, con si troppa leggerezza – sprecando, buttando via il talento di Phoenix, la cui prestazione è di massimo livello – . Ma il regista aveva a disposizione il Joker, il folle per antonomasia, consacrato in eterno dalla penna di Alan Moore e tutto quello che ha saputo fare è stato darci un personaggio poco delineato, uno sbiadito GG Allin che diventa Robespierre e Saint Just insieme senza, però essere veramente nulla di definito. Ovvio che, a Venezia, appena hanno visto un cinefumetto maggiormente introspettivo o, almeno, un po’ diverso, lo hanno premiato, ormai, che puoi fare? Se non puoi batterli, alleati con loro.
In tempi diversi la critica lo avrebbe addirittura snobbato, io riconosco lo sforzo: 7/10. Ma escludo il giudizio da quello che, un tempo, veniva definito “film d’arte”, lì non avrebbe speranza alcuna, premio, piuttosto, le immagini l’atmosfera l’evocazione di un cinema che, una volta, aveva un valore ora è divenuto citazione per piccoli registi che parlano ad altri, ma stavolta grandi, registi.
Strano, cupo, inaspettato, violento, coinvolgente, bellissimo… L’attore è strepitoso, non lo conoscevo. Sicuramente il miglior film fin’ora! 10/10 il mio voto!
Abbattiamo le vecchie definizioni, il “cinema d’arte”, le nostalgie del passato. Joker ha una forza che travalica il cinema, si è fatto inconscio collettivo. Non riconoscerlo, restare ancorati a snobismi polverosi vuol dire non vedere non solo il futuro, ma nemmeno il presente.
Mi piace molto il tuo pensiero, mi ricorda lo psichiatra Carl Gustav Jung…
Grazie Manuela, paragone fin troppo lusinghiero!
Prego! Figurati! 🙂
Pingback: “Proietteremo i vecchi film come fantasmi su un muro.” Incontro con Oliver Stone | Frammenti di cinema - di Marcella Leonardi
Pingback: Joker: recensione del film