Che cos’è un autore? I critici dei Cahiers, in un tempo (ormai lontano anni luce) in cui si rifletteva sull’essenza del cinema e sullo specifico del suo linguaggio, elaborarono la celebre “politique des auteurs”: trascendendo il mero approccio imitativo della realtà, l’autore è colui che trasferisce nelle immagini una visione del mondo e una poetica.
Forte di questa prospettiva, la critica francese fu così intensamente rivoluzionaria e avanguardistica da individuare l“autorialità” di registi fino allora considerati semplici prodotti del processo industriale cinematografico: Hawks e Hitchcock, ma anche Jerry Lewis e Nicholas Ray (tra gli altri) furono finalmente riscoperti e celebrati per la definizione delle rispettive estetiche, per l’impronta di uno sguardo riconoscibile e una messa in scena etico/estetica capace estrarre luce dal reale.
Oggi la critica è arenata su livelli elementari opinionistici e divulgativi; terminata la ricerca, non ci si domanda più “Che cosa è il cinema” (per dirla con Bazin) se non in un’ottica completamente autoreferenziale. Scuole e scuolette critiche si spartiscono feudi e litigano sulla presunta supremazia di un regista sull’altro; e intanto il cinema va avanti senza di loro.
E accade che un artista come Wes Craven sparisca lasciando dietro di sé una scia di commenti distratti e inadeguati, un brulicare di impressionismi che si sorregge su un’unica arma, quella del paragone: “E’ morto Wes Craven, mai grande quanto (un nome a caso tra Carpenter, Friedkin, Argento, ecc)”. Oppure: “E’ morto Wes Craven: tecnicamente bravo, ma di certo non un autore”.
Allora chiediamoci nuovamente cosa significhi essere un autore.
Un regista come Craven ha letteralmente scavato il deserto per imporre un’idea di cinema horror; ha ridefinito le coordinate del genere avendo il coraggio di sovvertire persino se stesso, reinventandole ogni volta.
Dopo un inizio (rimosso dalla critica) in un altro genere esplosivo e radicale quanto l’horror, ovvero l’hard di Angela – The Fireworks woman (1975), che rappresentò per Craven uno strumento antirepressivo in senso primigenio – soprattutto dopo l’educazione nel celebre college cristiano fondamentalista di Wheaton – il suo cinema si trasformò attraverso il tempo per seguire le mutazioni del mondo: dalla brutalità postbellica di Le colline hanno gli occhi (1977), agli incubi di Nightmare – dal profondo della notte (1984), che disegnano crepe nella stabilità della struttura americana stato/famiglia, fino al sottile gioco intellettuale di Scream (1996), il cinema di Craven smaschera i paradigmi del genere horror e parallelamente mette a nudo riti, fobie e ipocrisie collettive.
Lo stesso vale per i cosiddetti film “minori” (ma Godard e Truffaut ci avevano insegnato che il “film minore” non esiste): Il serpente e l’arcobaleno (1988), Sotto Shock (1989), La casa nera (1991) o Red Eye (2005) mescolano esigenze spettacolari e bagliori filosofici, incubi antropologici e allucinazioni, tratteggiando spettri politici e l’orrore per ogni forma di repressione: psichica, sociale e dell’immaginario.
Craven se n’è andato e con lui tutto l’amore che aveva per il suo pubblico: un pubblico da coinvolgere, provocare, scioccare, trascinare in uno spazio emozionale e stilistico fatto di paura, sadismo, riflessione estetica ed estasi. Vedere un film di Craven significa ancora entrare in un mondo di cui si diventa parte attiva: si vive, si muore, si uccide.
I personaggi di Craven hanno fatto irruzione nel nostro inconscio, ma allo stesso tempo anche noi siamo entrati nel loro.
(scritto nel settembre 2015)
Era davvero un grande Wes, grazie per questo articolo!
Grazie a te!