RIDE di Valerio Mastandrea

Ridefilm***
Nonostante i suoi 46 anni, Mastandrea fa cinema con l’impeto e l’emozione di un adolescente: una qualità rara e bella, una vocazione sentimentale che il regista disciplina con la sua professionalità. Ride, il suo primo film da regista, rispecchia questa originalità autoriale: da un lato Mastandrea non esita ad assecondare il suo sguardo colmo di giovinezza, carpendo la meraviglia insita nelle cose e osservandola con freschezza innocente – attraverso punti d’osservazione inediti e lievi sussulti – come se la macchina da presa fosse il suo cuore; dall’altro, questa materia calda d’amore ed emozione viene filtrata dall’esperienza. Ecco quindi che Ride ci offre le sue immagini cristalline, la sua piena evidenza, fatta di inquadrature “vuote”, cioè semplici, al cui interno troviamo pochi personaggi (spesso soltanto la protagonista) e pochi oggetti, disposti con equilibrato minimalismo; ed una natura scabra, immersa in una luce nitida, un orizzonte a perdifiato su cui gli esseri si muovono come su un limitare – quello, appunto, tra la vita e la morte.

Perchè Ride è un film in cui la morte è osservata, allo stesso tempo, con occhio emozionale ed analitico. La protagonista, Carolina, analizza ogni sensazione della sua vita proiettata all’interno di un “post mortem” – del giovane marito operaio, Mario, morto in fabbrica – non pianificato, e cui non sa come reagire. Mastandrea, con sensibilità delicatissima, coglie il suo non-agire: Ride è uno di quei rari film capaci di fissare, nell’eterno del cinema, il momento fuggente dello stupore di fronte alla morte: una perdita che toglie la parola (Carolina parla pochissimo, la sua è l’afasia di chi non trova più una collocazione nella “normalità”). Mastandrea blocca Carolina all’interno della casa, inquadrandola tra gli oggetti cari, i mobili, osservandola da una stanza all’altra, nella sua ripetizione di gesti familiari. Ride è la cronaca minuziosa del suo soffermarsi in uno stato privo di gravità, un vero “falso movimento”.

Parallelamente, Mastandrea ci mostra le altre due dimensioni su cui agisce la morte: quella del futuro (il figlio di Carolina, con la sua attitudine ad una “messa in scena” in cui dissimulare il dolore) e del passato (pietrificato nel rimorso del padre). Metaforicamente, Carolina è il presente: è il dolore nel suo farsi, dapprima invisibile, invocato, chiamato a gran voce come un diritto che le appartiene; fino alla sua esplosione insostenibile e naturale, una pioggia di lacrime in cui finalmente riposare.
Mastandrea è un regista di immagini e non di parola: narra attraverso il linguaggio del cinema, il suo è un film di dettagli e raffinatezze (immagini riflesse su vetri e specchi; inquadrature che nascondono parte della realtà dietro una porta; simmetrie; libertà contenute entro regolate geometrie). L’uso (talora abuso) della colonna sonora esprime il desiderio di fare di un brano il “suono” dell’emozione, in sintonia con il “flusso di coscienza” della protagonista.

La debolezza del suo cinema è invece la scrittura: la sceneggiatura alterna lunghi momenti di vuoto narrativo ad altri in cui le spiegazioni sono affrettate, affastellate; il regista gestisce il tempo in modo forse troppo personale, creando disequilibri. Ma Ride, con le sue incertezze, le esitazioni, le ingenuità, resta un’opera viva, interessante e da cui spira una sincerità commossa in grado di instaurare immediatamente un “colloquio” con il pubblico.
Ride cerca di parlare agli occhi e al cuore dello spettatore, senza imbarazzi, senza la dignità rigida e un po’ stantia del cinema “adulto”.

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