*****
Ogni gesto artistico è un tentativo di sopravvivere alla morte; tra questi, il cinema è il più romantico. La restituzione in immagine di qualcosa che non c’è più provoca un turbamento struggente: è la più grande illusione. Blade Runner 2049 è un film fatto di illusioni, un canto lirico di morte del cinema. La grandezza di Villeneuve, che ce lo fa amare fino alle lacrime, è l’aver compreso come, negli anni, il cinema abbia creato ricordi, innestandosi sui nostri ricordi reali, facendoci innamorare di volti e corpi e suscitando il desiderio impossibile di entrare all’interno della finzione.
In Blade Runner 2049 camminiamo dentro un mondo che lentamente svanisce: di qui la scelta di Villeneuve di sfaldare molte sequenze in un indefinito che restituisce l’immagine attraverso il filtro del sogno. La bruma che avvolge Los Angeles, il buio, la pioggia: come nei noir, in cui il chiaroscuro lasciava emergere le figure umane dagli abissi dell’inconscio, Blade Runner 2049 fa affiorare la sagoma di Ryan Gosling/K da un paesaggio indistinto e nebuloso.
K è un eroe in senso classico: epico, omerico. Il suo viaggio attraversa il tempo, e lo conduce dall’innocenza all’esperienza: conosce l’obbedienza, la disillusione, il male, l’amore e il desiderio di elevazione. Il suo mondo è costellato di immagini lontane/vicine, in cui il desiderio prende corpo eppure è così inattingibile: il suo rapporto con Joi è un destino di dolore. Il film di Villeneuve è solcato da una delle malattie più violente del contemporaneo: l’impossibilità del sentimento amoroso, divenuto vagheggiamento digitale che nasce dalla solitudine. Amare è impossibile, se non un ideale. La sequenza del rapporto sessuale, in tal senso, è tra le cose più struggenti degli ultimi anni: sia per il sentimento che veicola, sia per il meraviglioso tecnologico in cui Villeneuve lo traduce, vera figura retorica dell’emozione. E’ una scena-poesia in cui si condensano le variabili della disperazione umana – il desiderio e il sogno – cui il cinema da sempre sa offrirsi come droga, illusoria felicità.
Villeneuve, con un film così pervicacemente nostalgico, sorta di cammino a ritroso nel ‘900, non poteva essere compreso da un’era che si affanna verso il futuro, consumando le esperienze senza viverle. Villeneuve invece le rievoca, trasformando il passato in fantasmi olografici: immagini perfette che però si “bloccano”, si inceppano, come file corrotti, videocassette danneggiate.
Sinatra è intrappolato in una bolla, miniaturizzato (come su uno smartphone?), pronto al consumo; Elvis è luce trasparente, consumata nel “luogo” sbagliato: il cinema non ha più una casa, non restano che ombre sopravvissute e senza pace.
Probabilmente il film più cupo e addolorato degli ultimi anni, Blade Runner 2049 è cinema che guarda indietro, ma l’occhio del suo cineasta è straordinario, moderno e avanguardistico. Villeneuve sa scomporre lo spazio, trasformare ciò che è familiare in alieno e straniante: un albero, una parete con una finestra, tutto appare differente, inedito attraverso la sua macchina da presa. La vita, o ciò che resta di essa, è smarrita all’interno di prospettive dall’alto, cieli diagonali, bianchi accecanti che sfaldano i contorni delle cose. Tutto il cinema di Villeneuve (da Polytechnicque) è cinema di “vinti” ma anche di resistenza; e risuonano le parole di Montale: Non recidere, forbice, quel volto.
Pingback: GATTA CENERENTOLA di Cappiello, Guarnieri, Sansone e Rak | Frammenti di cinema - di Marcella Leonardi
Villeneuve il maestro del nulla.
Pingback: STAR WARS: EPISODIO IX – L’ASCESA DI SKYWALKER di J.J. Abrams | Frammenti di cinema - di Marcella Leonardi