LOGAN di James Mangold

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Nelle sequenze inziali, Logan, smarrito in notti illuminate da luci al neon, con una percezione sfocata delle cose e una stanchezza che ne annebbia il senso, si aggira recando su di sé una evidente pulsione di morte, simile a quella di Nicolas Cage in Via da Las Vegas; l’oscurità è funebre, l’umanità corrotta non sembra aprire alcun varco nella disperazione, non c’è possibilità di salvezza. Logan percorre chilometri e fa ritorno nell’unico simulacro di casa che gli è rimasto: una fonderia abbandonata oltre il confine in Messico, una prigione sulla terra, illuminata attraverso spiragli che spiritualizzano gli interni: una luce simile a quella ricreata dai grandi maestri della fotografia del cinema classico, come le immagini/sogno eteree, ultraterrene di Charles Lang.

E’ come se James Mangold, in Logan, ripercorresse il cinema che ha amato per farlo incontrare su un territorio ibrido – il superhero movie – in un’operazione di contaminazione, sovrapposizione e disintegrazione dei confini dei generi; Mangold si serve della “libertà di sperimentazione” concessa dal film di supereroi (che ultimamente, e con risultati alterni, sta diventando sempre più metacinematografico e autoriflessivo) per deviare il personaggio-Logan e spingerlo al margine tra umanità e superomismo. Logan è segnato, nel corpo e nella psiche: il declino fisico ne definisce anche la deriva esistenzialista, il cupo pessimismo che ricorda quello dei cinici investigatori del noir, consumati sin nell’anima dalla degenerazione del mondo, quanto i cavalieri solitari del western, costretti ad un inevitabile compromesso con un male inestirpabile.

Ed è proprio lo Shane-Alan Ladd (regia di George Stevens, 1953) citato dal film, a costituire l’ombra ideale che si posa sul personaggio di Logan, definendone la malinconia, il nichilismo, ma anche l’ultimo afflato di umanità ed eroismo. Il film di Mangold, nelle sue due ore e un quarto di durata, è esso stesso mutante: l’inizio crepuscolare apre a scene d’azione d’una precisione geometrica e affilata, veloci ed implacabili, orchestrate come una coreografia di morte senza rimorso; ma spesso il film assume l’angoscia silenziosa, il senso di attesa paralizzante che è propria dell’horror, come quando la piccola Laura viene scoperta nel covo di Logan: inquadrata di spalle, nella quiete foriera di sventura, sembra una presenza demoniaca da film horror giapponese, pronta all’attacco. Laura, come gli altri bambini-mutanti del film, è rappresentata come un commovente ossimoro di innocenza ed esperienza: ha una curiosità infantile, un’affettività impulsiva e feroce, e uccide con una naturalezza priva di morale. Infliggere la morte per salvare la propria innocenza: un motivo ricorrente dell’horror con protagonisti bambini, e di cui in Logan si respira il ricordo.

Logan e Laura sono legati dalla familiarità con la morte quanto dal disincanto nei confronti del mondo: non amati, reietti, sfruttati. Il loro viaggio insieme è un percorso di iniziazione, un lento riconoscimento reciproco, pur tra crudeltà; è un viaggio epico, archetipico, una “crescita” dei due personaggi verso un compimento eroico e sentimentale. Mangold si serve di topoi classici – la perdita del “padre”, la caduta delle illusioni, lo scontro finale col male. E alla fine, come in un viaggio omerico, la composizione dei dissidi, l’approdo: “E’ questo che si prova”. Logan ha attraversato il sangue per raggiungere l’amore, e attraverso l’amore, la pace.

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