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Eclissato dalle infinite discussioni su La La Land, e dal riconoscimento critico unanime per Manchester by the Sea, Moonlight è stato il film più trascurato, liquidato come operina corretta, inclusa tra le nominations esclusivamente per il suo valore sociale.
Invece Moonlight è davvero un film incantevole: certo, veicola una trama esile e archetipica, ma la forza stilistica di questo doloroso racconto di formazione è tale da giungere ad esiti poetici e fautori di un rinnovamento: non è solo il cinema “black” ad avere bisogno di Moonlight, ma tutto il cinema americano. Il film effettua in un certo senso un movimento contrario rispetto a quello effettuato da Chazelle, emblematico di una “restaurazione” (per quanto suggestiva) del gusto; Barry Jenkins invece sfronda il cinema da una narrazione convenzionale, si rifà alla libertà dei registi della nouvelle vague, e si permette di mescolare stili, influenze, in uno sviluppo ellittico e pieno di respiro.
Moonlight ha un avvio alla Truffaut, e sembra di riconoscere nel piccolo Chiron un Antoine Doinel delle periferie di Miami. Come Doinel, Chiron parla poco e ha un’attrazione per il mare, suo orizzonte di libertà e vita (e l’immagine finale, in particolare, sembra suggellare il legame di Moonlight con I 400 colpi).
Barry Jenkins mette in scena la crescita di Chiron attraverso alcune sequenze-chiave: i traumi del rapporto con la madre, gli episodi di bullismo a scuola, l’amicizia con Kevin, l’unico che riesca a farlo sorridere e a sgretolare la sua afasia. Jenkins filma queste sequenze con una mdp che ricerca il disorientamento emozionale: Chiron è assediato, il mondo sembra roteare impazzito attorno a lui; un movimento vertiginoso ma anche spezzato, fatto di traumi, colpi, cadute.
Il racconto è organizzato in una serie di vuoti a partire dai quali lo spettatore cerca di rimettere insieme la vita spezzata di Chiron: tre movimenti – infanzia, adolescenza, età adulta – lontani dal flusso rassicurante, naturalista di Boyhood di Linklater. Jenkins ci trasmette le esperienze di Chiron non da un punto di vista esterno, oggettivo, come accadeva nel film di Linklater (in cui la mdp sembrava scomparire ed il film “farsi da sé”); ma è una crescita osservata “dall’interno”, dall’emotività turbata del giovane. Ecco allora l’enfasi sulle luci sfocate e innaturali della città, sul tempo vissuto in modo interrotto, sugli spazi che diventano luoghi di pericolo, o rifugi da animale braccato.
Jenkins è delicato e poetico, colmo di rispetto nei confronti del suo personaggio: la timida apertura amorosa di Chiron, la vulnerabilità con cui subisce la distruzione delle proprie illusioni sono mostrate senza sensazionalismi. Allo stupore del sogno notturno segue un risveglio di violenza: Jenkins ci fa quasi sentire il sapore del sangue, e la rabbia che cresce come un fiore velenoso.
L’ultimo capitolo, in cui Chiron ci appare adulto, è il più luminoso e registicamente stupefacente: Jenkins abbandona il movimento orizzontale del film e si concede una lunga scena tra Chiron e l’amico ritrovato della propria giovinezza. Il tempo si ferma, dialoghi imbarazzati si intrecciano a sguardi che fanno sobbalzare il cuore. Improvvisamente sembra di essere precipitati in un sogno atemporale, in cui una vita di attese, non detti, rimpianti, affiora come un impalpabile corpo fantasmatico che abbraccia i protagonisti. Le atmosfere ricordano le romances non-vissute, ma disperatamente intense, del cinema di Wong-Kar Wai, cui Jenkins ha dichiarato di ispirarsi. E una canzone al juke-box trova le parole che quell’amore smarrito non sa pronunciare.
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