Il cinema è sempre politico, ha dichiarato Pablo Larrain. E Il Club è la dimostrazione immediata e naturale di questo assunto: è un film in cui ogni immagine è una visione del mondo, in cui ogni inquadratura è metaforica, significante, espressione di un dato esistenziale tradotto in esperienza visiva.
Il Club è un limbo: indistinto, addolorato, segnato da un male ineluttabile che abbraccia gli esseri umani indipendentemente dalla propria natura oscura o luminosa, dal proprio farsi carnefici o vittime. Una dicotomia che Larrain mostra nella sua interezza, in un trascolorare da un limite all’altro: ecco perchè Il Club è fotografato in un grigio velato, privo di contorni netti, spesso invaso dalla luce diretta che sfalda i contorni e trasforma i chiaroscuri in scale di grigi, su cui brilla il riflesso della lente – un’illusione di vita e di perdono universale su un’umanità affranta.
Si tratta di un’opera profondamente religiosa: pervasa di una religiosità non conforme, non istituzionale, ma che è compassione verso gli ultimi, i peccatori, le anime nere seviziatrici degli innocenti, uniti dal medesimo dolore. Un film pasoliniano, Il Club: non solo per la religiosità che lo pervade e lo trasforma in cinema spirituale; ma anche nello stile, nella predilezione per immagini “staccate” dal racconto e solitarie, di grande forza iconica, nella cui cura compositiva si rinvengono temi e figure della pittura sacra – scene apostoliche, immagini di martirio, la mano che tocca la ferita di cristo, la lavanda dei piedi.
Larrain apre il film con con la scena, onirica e separata dal tempo e dallo spazio, dei quattro sacerdoti (il club su cui pesa il segreto e la vergogna) che giocano in spiaggia: una visione che allude a un eden rincorso e perduto, girata in una luce livida e lontana.
Uno stacco ci fa ritrovare i sacerdoti all’interno della casa in cui sono obbligati a vivere seclusi: e qui l’immagine si fa distorta, l’illusoria serenità è scomparsa, una leggera deformazione dell’obiettivo imprime alle inquadrature un senso di sopraffazione innaturale.
La figura umana, inquadrata al centro come nel caso di Padre Garcia, inviato ad investigare sul piccolo gruppo, si impone come autorità giudicante e castrante, volta a imporre una sorta di morte spirituale ai quattro peccatori; i quali mostrano, ognuno in modo diverso, una sorta di irriducibilità del male che li abita: una “vita” interiore che si rifiuta di sparire dal mondo.
Di tutti, Padre Vidal è l’emblema più forte del legame indissolubile tra bene e male: la tenerezza che lo lega al cane Fulmine è profonda quanto la sua incapacità di assecondare regole morali. Egli è vittima tanto quanto lo è Sandokan, la figura cristologica del film: un disgraziato vittima di abusi sessuali, il cui volto sembra dipinto da Antonello da Messina, e che diviene l’ultimo anello di una catena di soprusi; un agnello sacrificale in cui si sublima la scala gerarchica del potere, un Gesù privato della speranza e della fede.
Alle scene più violente del film Larrain oppone paesaggi naturali silenziosi, l’infinito del mare, o la commozione di albe e tramonti: finchè il sole risplenderà sulle sciagure umane.
Larrain è difatti il regista dell’”irresposabilità”, come egli stesso si è definito: i suoi film assestano colpi e non chiedono perdono. L’umanità di Il Club è inchiodata alla disperazione: frutto del proprio sentire interiore e imposta dalla crudeltà del potere. Il sangue versato chiede un’assoluzione, un perdono che la macchina da presa di Larrain nega, preferendo il crudo simbolismo di un “ritorno all’ordine” che è invece schiavitù, prevaricazione e resa della volontà. La scena finale possiede la luce evocativa di una messa: l’ostia condivisa come ritualità in cui si annebbia la realtà e si addormentano le coscienze.