LA FAMIGLIA FANG di Jason Bateman

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Ci sono film in cerca di un’identità non raggiunta, opere che restano in potenza e falliscono nella ricerca di una visione. Un film è sempre un viaggio, ma nel caso di La Famiglia Fang si ha l’impressione di non partire mai, di restare in attesa di fronte ad una serie di eventi che, per quanto il regista Bateman si affanni, rimangono statici, buttati di fronte al nostro sguardo e abbandonati tristemente. Una storia come quella dei Fang, con la sua peculiarità, il suo carattere schizofrenico riguardante le sfasature del rapporto genitori/figli, qui condotte a conseguenze violente e paradossali, aveva bisogno di un correlativo oggettivo stilistico: Bateman invece si serve di un linguaggio che non corrisponde mai alla materia narrata.

La Famiglia Fang è antitetico rispetto all’iconoclastia (seppur mediocre) dei suoi protagonisti. Allo sberleffo rozzo e contaminato dai dettami di una società televisiva, ai rovesciamenti del senso comune perseguiti dai genitori Fang (un ideale mai raggiunto, ma inseguito con fede tenace) Bateman oppone una narrazione di un devastante anonimato: non c’è immagine, nel film, che non sia funzionale. Se nella propria narcisistica follia i Fang esaltano il valore del gesto, folle e squilibrato, Bateman invece non conosce il valore dell’immagine per se stessa. Il suo fraintendimento cinematografico lo porta a realizzare un film in cui il linguaggio visivo non ha alcuna autonomia né bellezza intrinseca, ma vale solo se supportato da un discorso (l’invadente colonna dialogica).

E non solo: il regista crede di conferire al film un valore estetico inserendo brani finto-documentaristici allo scopo di movimentare la narrazione, renderla viva tramite un vezzo autoriale; ma non si accorge che così facendo si allontana ancora di più dai suoi protagonisti. La sua mdp non mette a fuoco i personaggi ma è soggetta a costanti distrazioni; le scelte stilistiche non sono dettate dall’interno, ovvero dalla necessità di mettere in scena i caratteri, ma è vero il contrario: i suoi caratteri sono vittima di espedienti narrativi.

Il prodotto finale, cui assiste lo spettatore, è un film estremamente rassegnato alla propria mancanza di autonomia: un’opera compromissoria in cui la preoccupazione di compiacere lo spettatore, fornirgli strumenti per la comprensione della storia schiacciano il piacere del cinema. Il dato più evidente di questo modus operandi è l’uso della colonna sonora: creata da Carter Burwell, compositore dai peculiari toni romantici/fantastici, risulta fortemente in contrasto con l’ordinarietà delle immagini. Bateman chiede alla colonna sonora di permeare scene prive di peso emotivo: quasi si affidasse a Burwell per scavarle e rivelarle. Ma il film resta sullo schermo in tutta la sua opacità. Come fissare uno schermo grigio a luci accese.

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