Baskin, film horror turco, è tra i più fecondi tentativi di resistenza nei confronti di un genere sempre più serializzato dai modi produttivi statunitensi. Il regista Can Evrenol, al suo debutto, fa di tutto per slegarsi dai codici dell’horror di consumo e crea un prodotto che si distingue per cura stilistica, influenze classiche, uso consapevole del tempo e dello spazio; una ricerca minata da un soggetto, purtroppo, scadente, che Evrenol in parte riesce a valorizzare sviluppandolo attraverso una sceneggiatura circolare e non priva di sorprese.
Pur nella sua discontinuità, Baskin è comunque un film di notevole interesse soprattutto nella prima ora, in cui Evrenol mette in atto un grande studio compositivo, coloristico e simmetrico. La freschezza di Baskin risiede innanzitutto nella sua attenzione all’immagine esaltata nella sua singolarità: l’immagine “bella e strana” in accezione surrealista, ricca di suggestioni ed echi, stagliata nel suo valore per se, cui Evrenol rifiuta di attribuire alcuna funzionalità. Se l’horror americano mainstream si affanna a spiegare e a offrire percorsi sicuri allo spettatore, Baskin sceglie invece l’ellisse narrativa, alla ricerca di una purezza non ascrivibile alla trama. E non è un caso se il referente principale di Baskin, riconoscibile in ogni inquadratura, è Mario Bava, di cui Evrenol riprende i rossi e i blu e il gusto per l’effetto artigianale.
Baskin osa inquadrature insolite, primissimi piani, movimenti lenti e di scoperta, animato da un puro piacere per il bizzarro. Il suo “aggiornamento” stilistico passa inevitabilmente per Refn, ma Bava è la vera aspirazione del regista (che riproduce persino, in modo filologicamente perfetto, la famosa sequenza della mano de La frusta e il corpo). L’archetipo baviano, cui Evrenol anela, viene mescolato ad altre influenze eterogenee: dall’onirismo di Cocteau, all’attenzione per il dettaglio e per la vertigine di origine hitchockiana, all’enfasi visionaria di Rob Zombie e al simbolismo di Hellraiser, passando per la pessimistica violenza fulciana (sintetizzata dalla scena dell’occhio).
Peccato, quindi, che un film realizzato con tanta ambizione si perda in un eccesso teatrale e grottesco, che sembra cedere alle esigenze del mercato: dopo meno di un’ora, difatti, il rigoroso formalismo lascia il posto a effetto grossolani, tradendo lo spirito colto ed elitario della prima parte. Una caduta dall’astrazione al grandguignolesco che il regista tenta maldestramente di motivare con risibili dialoghi filosofici.
Se film come Martyrs o A Serbian Film, sicuramente tra gli horror più importanti e fondamentali della contemporaneità, riescono a gestire la violenza spiritualizzandola, Baskin non riesce ad elevarsi da una esaltazione drammatica che lo sbilancia e ne destabilizza struttura e coerenza stilistica. Un’occasione perduta, quindi; ma piena di idee, di coraggio, di passione e di cinema, che fanno di Evrenol un esordiente da ammirare.