“La mia relazione con Bowie è iniziata quando avevo 13 anni. Acquistai una copia di Aladdin Sane quando non avevo un giradischi, e ho avuto questo disco per un anno prima di poterlo ascoltare. Era l’immagine, non il suono, ad attrarmi” (Tilda Swinton)
Più di qualunque trafiletto sul rapporto tra David Bowie ed il cinema, le parole dell’amica Tilda Swinton (con cui Bowie ha girato il suggestivo video “The Stars (Are Out Tonight)” spiegano quello che Bowie ha rappresentato non solo per il grande schermo, ma per tutta l’arte e l’immaginario collettivo. Prima ancora di essere una voce, Bowie era un’immagine. Un artista il cui rapporto con il proprio corpo è stato portato avanti senza compromessi; un volto allo stesso tempo alieno e familiare, umano sino allo struggimento eppure angelico, ironico o squisitamente dandy; una creatura le cui caratteristiche sembravano farne un ospite su questa terra, perennemente volto a superare i limiti del proprio essere e trascenderli in una spiritualità dalle forme luminose ed evanescenti – come le sue incarnazioni glam – o dall’affilata eleganza.
David Bowie, per i giovani della sua generazione quanto per i successivi, è stato la stella capace di solcare la terra assumendo la forma di volta in volta più vicina al suo spirito. Ha mostrato come fosse possibile percepire l’infinitezza del mondo attraverso una infinitezza di se stessi, rivelata anche dalle forme esteriori, sino ad un rapporto trasparente con la propria multiforme sessualità.
“Da adolescente, ero terribilmente timido, reclusivo. Non avevo proprio il coraggio di cantare le mie canzoni sul palco. Ho deciso di farlo sotto mentite spoglie in modo da non dover effettivamente sperimentare l’umiliazione di salire sul palco e di essere me stesso. Ho continuato a progettare personaggi, ciascuno con la propria personalità e background. (…) Piuttosto che essere me – che deve essere incredibilmente noioso per chiunque – prendevo Ziggy, o Aladdin Sane o The Thin White Duke.”
Le scelte cinematografiche di Bowie sono coerenti con la sua predilezione per una eccentricità nella quale egli rinveniva l’unica libertà possibile: è stato, tra gli altri, l’ufficiale Celliers in Furyo (1983) di Nagisa Oshima, un personaggio sensuale, carismatico, emblematico per innocenza e carnalità, capace di suscitare istinti morbosi e inconfessabili; ma anche un vampiro morente nell’erotico, postmoderno Miriam si sveglia a mezzanotte (1983), esordio atmosferico e perturbante del (mai abbastanza) compianto Tony Scott. Entrambi i film vivono della qualità fantasmatica di Bowie attore, che però si rivela anche capace di assumere vesti fiabesche in Labyrinth (1986) di Jim Henson, o di mutare in un altro artista iconico, Andy Warhol, in Basquiat (1998) di Julian Schnabel.
Bowie ha lavorato con Scorsese, diventando Pilato nel controverso, profondamente personale L’ultima tentazione di Cristo (1988) e ha anche interpretato svariati cameo in cui ha messo in luce un carattere intensamente autoironico: da Zoolander di Ben Stiller (2002), allo squilibrato Philiph Jeffrey di Twin Peaks: Fuoco cammina con me di Lynch (1992) fino a prestare la sua voce in un episodio del surreale cartoon Spongebob Squarepants.
Ma il ruolo in cui Bowie “replica” se stesso fino a confondere realtà e finzione resterà sempre l’incredibile Thomas Newton de L’uomo che cadde sulla Terra di Nicholas Roeg (1976): un alieno di età indefinibile, bianco e trasparente come un fantasma, triste e solo, capace di replicare, con strano automatismo malinconico, comportamenti appresi guardando la tv satellitare. Una creatura brillante, elegante, la cui naturale innocenza istiga le violenze di scienziati che lo riducono ad un ratto da laboratorio.
David Bowie resterà sempre “un’immagine”: troppo simile a noi per non attrarci, e al contempo distante, irraggiungibile, dotato di una congenita aspirazione al sovrannaturale. “I always had a repulsive need to be something more than human” – Ho sempre avuto un bisogno ripugnante di essere qualcosa di più che umano.