Revenant è un film interiore, non un film di genere. Per chi non ama Alejandro G. Iñárritu, è il suo limite; per chi lo ama, il suo specifico.
Se, tecnicamente, Iñárritu non è tra i più “grandi” registi contemporanei – l’uso che fa del linguaggio-cinema è sotto molti aspetti circoscritto – di certo il regista messicano è una voce irriducibilmente personale. Egli incarna la volontà di cinema “nuovo”, autentico in quanto fedele alla propria visione e capace di perseguirla con ogni mezzo, al punto che i suoi limiti definiscono anche le qualità e lo specifico del suo sguardo.
Come Birdman, anche Revenant presenta due elementi caratteristici dell’autorialità di Iñárritu: il disvelamento della finzione e il coinvolgimento mimetico dello spettatore.
Per Iñárritu, l’immagine contiene sempre la presenza di “un altro”: e se in Birdman questo “occhio” (del regista) si rinveniva nel piano sequenza magicamente continuo, capace di attraversare cancelli e finestre e librarsi in volo, in Revenant è il riflesso luminoso della lente, o il suo appannamento, o gli schizzi di neve. In ogni immagine di Revenant è presente il suo autore che filma/firma, riprende, crea. Ma è un processo in cui Iñárritu implica, in forme estreme, anche lo spettatore. Iñárritu chiede al pubblico il coraggio di una partecipazione totale: lo immerge nella violenza di una battaglia – fino a fargli sentire il sibilo di una freccia vicina al viso – o lo percuote senza rimorso e senza risparmiargli colpi, squarci di carne, sofferenza.
In Revenant, Iñárritu pone lo spettatore al centro della scena e dei propri simulacri: tutto si muove circolarmente intorno a lui, e le sensazioni – il freddo, il dolore, la luce, il buio, la paura – diventano esperienze soggettive.
Iñárritu ha fatto del piano sequenza la sua cifra distintiva perchè è il movimento di macchina in cui si riassume la sua forma-cinema: una continuità d’azione ed emozione che circonda sia il protagonista che il pubblico.
Tutto, in Revenant, è frutto di una visione estremamente personale: si pensi alla natura, profondamente anti-malickiana e brumosa, indistinta, interiorizzata. Se nei film di Malick il paesaggio esprime una bellezza serena e crudelmente distante, in Revenant la natura possiede un’oscurità, una violenza inscindibili dallo spirito dell’uomo: quasi ne fosse un riflesso. Inoltre, Revenant prende le mosse da una mitologia western tipica degli anni ’70 (in particolar modo Piccolo grande uomo, di Arthur Penn) ma iconograficamente si distacca dalla nitidezza e dalla frontalità di quel cinema: l’immaginario di Revenant ha un’origine “infernale”, nasce da una profondità verticale.
Un film indimenticabile, che nella sua durezza annida segni di straziante poesia, come le apparizioni oniriche e le voci mormorate dall’inconscio – o forse da un “oltre” – in cui il cinema di Iñárritu, con la sua forza sconvolgente, riesce a farci credere.
Bellissima analisi!