A 80 anni Woody Allen è diventato il cineasta più spiazzante del cinema americano. Se il cinema “alleniano” è ormai appannaggio dei suoi estimatori più entusiasti e di talento – primo tra tutti Noah Baumbach, che ha preso in eredità le nevrosi, la cinefilia e l’ironia dell’intellettuale newyorkese – Woody Allen invece continua, periodicamente, a “tradire” se stesso disorientando lo spettatore e il critico meno attento.
In realtà questo Irrational Man, pessimista, diseguale, non-conciliatorio, è espressione dello sguardo alleniano più oscuro e razionale: uno sguardo privo di catarsi. Chiunque conosca profondamente il regista newyorkese sa bene che in lui vivono due anime: la prima crede fortemente nel potere taumaturgico del cinema, nella capacità che ci viene offerta dall’arte di comporre i dissidi e le asperità dei comportamenti umani. E’ la sua anima di forte derivazione classica, e discende direttamente dal cinema di Lubisch: ad essa dobbiamo il Woody Allen più conosciuto e amato, quello che in Io e Annie riunisce i due protagonisti tramite l’occhio fantastico dell’arte (“che volete, era la mia prima commedia”) o che in La rosa purpurea del Cairo placa i dolori di Cecilia nel sogno di Astaire/Rogers.
Ma vi è anche l’anima più cupa di Allen: l’Harry a pezzi che il cinema mostra in tutta la sua cubista irresolutezza. A questa appartiene Irrational Man: l’opera di un regista-analista, chirurgico nel dissezionare entomologicamente il racconto e le figure umane che lo abitano.
Irrational Man registicamente è matematico: tempi, dialoghi, inquadrature concorrono a portare alla luce i suoi personaggi, rivelati allo spettatore ma opachi l’uno all’altro. Abe (Phoenix), professore in crisi, estremo, distruttivo, ma anche freddo e narcisista; Jill (Stone), studentessa colta, idealista, fiduciosa nella redenzione e pervasa da un forte senso di giustizia e moralità. Abe e Jill sono due segni opposti catturati dall’illusione di aver trovato un varco alla propria incomunicabilità.
Tornano antichi fantasmi di Allen: Dostoievski per i dilemmi morali e la ricerca della verità, Bergman per la distanza incolmabile tra i personaggi. Ma Allen, a 80 anni, si prende il lusso di sperimentare, mescolare, sovrapporre questi fantasmi realizzando un cinema che vive degli scarti tra le dimensioni esistenziali che in lui si affastellano.
Irrational Man, scontenta chi ancora va cercando l’aforisma, la soluzione ironica, il ritmo mozartiano: è pieno di abissi, interruzioni, buchi, ma anche di vita. Allen dichiara subito le proprie intenzioni, a partire da quei titoli di testa secchi, bui, senza colonna sonora, senza Miller o Gershwin. Perché a volte è impossibile risolvere la vita in musica.
Questo film è un regalo inaspettato e francamente la marea montante di critiche negative (per fortuna bilanciate da altrettante positive) ci lascia sorpresi. J.J. Abrams ha portato a compimento un lavoro difficile ed eroico: offrire un nuovo sogno al pubblico di oggi, senza contemporaneamente distruggere la memoria del passato. Due lembi del sogno si sovrappongono ed è una sorta di miracolo.
Penalizzato dall’ennesimo, scandaloso titolo attribuito dalla distribuzione italiana, ma anche dalla programmazione delle feste, Quel fantastico peggior anno della mia vita (Me and Earl and the dying girl) è una vera sorpresa che nessuno, o quasi, vedrà. Un “Sundance movie” (con le tipiche pecche, ma anche la grazia di tanto cinema indie) che è al contempo romanzo di formazione, racconto americano, teen movie e metacinema pervaso di raffinata cinefilia. Ma il bello di Quel fantastico peggior anno della mia vita è che questa cinefilia non è esibita come gimmick o ammiccamento snobistico, ma è una dichiarazione d’amore fortissima e sincera: esattamente come accadeva in Be Kind Rewind di Michel Gondry (di cui il film sembra essere un ideale secondo capitolo) o in Frankenweenie di Tim Burton.
Il fatto che un film dalla bellezza sconvolgente come HEART OF THE SEA sia stato del tutto ignorato ai Golden Globes la dice lunga sullo “snobismo al contrario” che affligge la critica americana; una forma di diffidenza cronica nei confronti di un cinema, quello di Howard, da sempre considerato nulla più che spettacolo e artigianato professionale. Se la critica (e forse accadrà anche da noi) fallisce nel vedere la bellezza di questo film, alla base c’è un totale fraintendimento del concetto di arte cinematografica. HEART OF THE SEA è, in barba a tanta miopia, tra le cose più autoriali dell’anno. E’ incredibile come Ron Howard abbia fatto di questo film la summa di cento anni di cinema, studiati, amati ed assimilati, e qui vivi e presenti in una regia che fa della sua preparazione classica la propria forza innovatrice: una “grammatica” su cui Howard erige un cinema del tutto contemporaneo. Con HEART OF THE SEA, Howard si dimostra un regista immenso: ritroviamo tecniche, linguaggi, composizioni dell’inquadratura, movimenti di macchina che hanno fatto storia (impossibile fare nomi: c’è di tutto, dal muto al technicolor anni 50, dai chiaroscuri di Von Sternberg al movimento di Minnelli, dai codici classici degli studios al cinema più libero dei 70, e tanto altro); ma non vi è alcun citazionismo, è tutto forgiato in un cinema nuovo, personale, sperimentale.
Regression non è cinema, ma una giustapposizione di dialoghi, ripresi e tenuti insieme da scene di raccordo. Amenàbar predilige di gran lunga gli elementi verbali a quelli visivi, ed il suo film è un vuoto emozionale: tutto quello che vediamo in Regression è una mera ripresa, una registrazione visiva di personaggi impegnati in un confronto dialogico. E’ un film “parlato”, o meglio: Hitchcock l’avrebbe definito “fotografia di gente che parla”. Senza dialoghi non resta che uno scheletro di primi piani e pochi schematici campi-controcampi; dialoghi che, tra l’altro, sono del tutto inerti dal punto di vista della progressione narrativa: mal scritti e mal recitati, si abbandonano ad una logorrea che danneggia sia la tensione che l’economia del racconto.
Dio esiste e vive a Bruxelles ci fa desiderare di aver visto un altro film: quello dedicato esclusivamente al dio iroso, sadico, comico impersonato dall’incontenibile Benoit Poelvoorde. I momenti migliori sono quelli in cui Poelvoorde irrompe sullo schermo, faccia paonazza, sudato, trascurato, curvo sulla sua postazione informatica tra bottiglie vuote e sigarette, in preda al piccolo, meschino piacere che gli deriva dall’infliggere ogni sorta di tragicomiche sofferenze all’umanità. Se dio ci ha creato a sua immagine e somiglianza, è facile identificarlo con la viltà, le esplosioni di rabbia e le rivalse dell’umanissimo, complessato personaggio creato da Poelvoorde, ed il pubblico infatti è tutto dalla sua parte. L’attore infonde una vitalità furiosa persino ad una scrittura comica usurata (come l’invenzione delle leggi della sfiga, mutuate dal celebre Murphy’s Law), ma soprattutto è un meraviglioso interprete corporale: vederlo sullo schermo è quasi sentirlo in tutto il suo carico di umori e odori – fiato alcolico, traspirazione e tabacco – sbattuti in faccia allo spettatore senza alcuna reticenza, e con una trionfante mimica da cinema muto. Poelvoorde ha un possesso strepitoso dei tempi comici e della propria forza espressiva: si contorce tra smorfie e ghigni, e usa in modo parossistico il corpo come solo i primi comici della storia del cinema sapevano fare.
Se si ama il cinema non si può non vedere Il Mago – L’incredibile vita di Orson Welles di Chuck Workman. Si tratta di un documentario che finalmente, a differenza di