Penalizzato dall’ennesimo, scandaloso titolo attribuito dalla distribuzione italiana, ma anche dalla programmazione delle feste, Quel fantastico peggior anno della mia vita (Me and Earl and the dying girl) è una vera sorpresa che nessuno, o quasi, vedrà. Un “Sundance movie” (con le tipiche pecche, ma anche la grazia di tanto cinema indie) che è al contempo romanzo di formazione, racconto americano, teen movie e metacinema pervaso di raffinata cinefilia. Ma il bello di Quel fantastico peggior anno della mia vita è che questa cinefilia non è esibita come gimmick o ammiccamento snobistico, ma è una dichiarazione d’amore fortissima e sincera: esattamente come accadeva in Be Kind Rewind di Michel Gondry (di cui il film sembra essere un ideale secondo capitolo) o in Frankenweenie di Tim Burton.
Il regista Alfonso Gomez-Rejon, un passato da assistente di Scorsese e Iñárritu, mette in scena i suoi fantasmi d’amore cinematografici con furore creativo e fantastico, e un sentimento al contempo umoristico e di grande malinconia. I suoi giovani protagonisti, Greg e Earl, con la loro infanzia “traviata” dai film di Herzog, cementano la loro amicizia (ri)girando grandi classici: parodie irresistibili dai titoli quali Sockwork Orange, Eyes Wide Butt o The 400 Bros.
Basterebbe la loro venerazione per il logo dei The Archers (Powell e Pressburger) a farli entrare nel cuore di qualsiasi cinefilo, ma i due in più osano coraggio, freschezza, passione, servendosi di ogni mezzo: stop motion, scenografie alla Ed Wood, un “guerrilla filmmaking” istintivo e improvvisato.
Il regista Alfonso Gomez-Rejon non bluffa: il suo è amore vero, dentro e fuori la storia narrata: è nelle immagini, nella linea tremula tra realtà e sogno, e nella colonna sonora (che “deruba” tanti film famosi: da Vertigo, ai 400 Colpi, ma anche un college movie scorretto e geniale come Election di Alexander Payne).
Eppure Quel fantastico peggior anno della mia vita ha l’ambizione di essere un film per tutti e non solo per un pubblico cinematograficamente colto. Lo spettatore giovane o meno preparato non proverà minor piacere in una fruizione che si affida esclusivamente alla storia narrata, alla sensibilità del racconto, alla bravura degli attori. Il lavoro di Gomez-Rejon infatti è un “romanzo americano di formazione” idealmente innestato (fatte le debite proporzioni) sulla scia di John Fante e J.D. Salinger. Poi, certo, il film ha a che fare con una morte ed una malattia che sembrano diventate una costante del filone giovanilistico; ma il regista affronta il tema con una sguardo pudico ed universale che rimanda alla morte come perdita, difficoltà del passaggio all’età adulta. L’idea della morte è il velo oscuro che fa dell’adolescenza l’età delle ombre per eccellenza. Nessuna perdita è mai tanto devastante come quelle subite in giovane età. E Gomez-Rejon fa esattamente questo: canta la morte della vita e la morte del cinema, e celebra, allo stesso tempo, la forza vitale e travolgente del ricordo, grazie al quale tutto si trasforma in eternità.
Lo vidi con pochissime aspettative, invero è un film originale e brillante.
Di sicuro questo Rejon è un regista da tenere d’occhio 🙂
Sono d’accordo! 🙂