IL MAGO – L’incredibile vita di Orson Welles di Chuck Workman

HP_ilMagoSe si ama il cinema non si può non vedere Il Mago – L’incredibile vita di Orson Welles di Chuck Workman. Si tratta di un documentario che finalmente, a differenza di Amy di Asif Kapadia o Io sono Ingrid di Stig Bjorkman, è una biografia artistica, e non privata. E del resto, come poteva essere altrimenti? Un artista bigger than life: bambino prodigio, a 11 anni conosce perfettamente l’opera di Shakespeare e lavora alle sue prime rappresentazioni; a 16 diventa la star del teatro di Dublino; a vent’anni rivoluziona il teatro in America (esattamente come avrebbe fatto poco dopo col cinema) introducendo il concetto di teatralità (che gli derivava anche dalla sua passione per l’espressionismo): uso delle luci, enfasi della messa in scena, cura maniacale degli spazi e della scenografia.
Successivamente il suo lavoro in radio – in particolare, il caso de La guerra dei mondi mette a nudo il concetto di “finzione” che approfondirà per tutta la sua opera, (fino all’illuminante F for Fake che resta ineguagliato come disvelamento del “falso” cinematografico). Un genio troppo grande per il pubblico e per la critica.

Il più brillante dei direttori della fotografia, Gregg Toland, lo cerca, vuole lavorare con lui. A 24 anni, con Citizen Kane, Welles filma l’infilmabile: la profondità di campo fino ai minimi dettagli, i soffitti, le ombre; eppure Welles ne parla con modestia (“avevo delle idee, mi dicevo: Perchè no?”). Ma la RKO, che lo aveva sotto contratto, è incapace di capire l’infinità delle sue opere, al punto da rimontare L’orgoglio degli Ambersons, e successivamente licenziarlo. E poi i lavori fatti per sopravvivere, i film nati da passione e sangue e distrutti dalla critica (Macbeth), i capolavori perduti per motivi di diritti (Falstaff), i film mai finiti (Don Quixote, The Deep). Il regista Chuck Workman monta tutto con misura, intelligenza e grande ironia: non eccede mai in sensazionalismi, non mortifica mai Welles (il montaggio veloce dei tantissimi ruoli accettati solo per motivi economici è un capolavoro di sottigliezza) né lo mitizza (Welles non lo avrebbe mai voluto).

Apprezzabilissima anche la scelta di sorvolare sulle pachidermiche sviste critiche di Pauline Kael e Bosley Crowther: Chuck Workman si limita a mostrare i loro nomi sullo schermo, a memoria di prospettive critiche taglienti quanto erronee.
Ne emerge un Welles umanissimo, pieno di humour ma anche malinconia, rimpianto, saggezza nei confronti delle scelte fatte; e colmo d’amore insopprimibile per il cinema, che gli costò anni, lacrime, dolori.
“Bisogna credere in qualcosa di più grande di se stessi”, diceva, spiegando la sua stellare ambizione.
Bogdanovich, Scorsese, Friedkin, Pollack, Linklater si alternano nel ricordarlo, con occhi sfavillanti ed eterna gratitudine. Spielberg ha ancora con sé lo slittino di Citizen Kane, acquistato per 45.000 dollari; quando Welles seppe dell’acquisto, reagì ridendo: “Pensavo l’avessimo bruciato”.

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