Un cinema esausto, quello della Comencini: figlio degli anni ’80 più conformisti, quelli delle baruffe borghesi, del “volemose bene”, delle nevrosi collettive e riconciliatorie. Un cinema che del matriarcato Monicelliano eredita solo i dati esteriori, e tenta un’incursione nelle “crisi di nervi” almodovariane togliendo però il colore, la scorrettezza, l’eccentricità per ridursi a scherzo innocuo e caricaturale. La Paredes e la Lisi sono magnifiche, ma la loro intensità non basta a risollevare una sceneggiatura mediocre. Latin Lover è una farsa con sovrabbondanza di colpi di scena e personaggi; un sovraccarico che supplisce ad un vuoto di verità, tanto nei sentimenti quanto nelle emozioni. E sovraccarica è spesso anche la regia della Comencini, che passa da piattezza didascalica ad eccessi virtuosistici, movimenti traballanti, a sottolineare il clima instabile di isteria tra le protagoniste. Lo spettatore è letteralmente schiacciato: dalle battute imboccate, dalle risate, dalle entrate in scena, dai monologhi che suonano come immensi “spiegoni”. E l’omaggio al cinema, dov’è esattamente? In quel montaggio che fa tanto cinema paradiso, in versione molto più ruffiana e scolastica. Ma forse questo è il cinema “colto” che si merita lo spettatore italiano, sempre più stupido.