Guardare il film Mommy, di Xavier Dolan, significa uscire dalla propria vita per entrare in un altro universo, quello di Diane e Steve. I loro corpi, gli occhi vivi e rabbiosi, l’amore. Questi volti ravvicinati, scrutati, “faces” di cassavetesiana memoria, incollati l’uno all’altro, pronti a scarnificarsi e toccarsi. Ed i cieli che si spalancano improvvisi, l’azzurro, la musica che spacca le orecchie, le strade e la memoria. Dolan è un regista che conosce le donne così bene da sorprendere; così come sorprende la sua capacità di descrivere la ferita e la bellezza della giovinezza con occhio puro e poetico, un Rimbaud di fronte ad albe strazianti. Dolan usa tutto il cinema, se ne appropria, ogni inquadratura parla, riluce: tecnicamente perfetta eppure nuda. Questo ragazzo fa il cinema più sincero che esista. Non esita a rompere le regole, a riscriverle: usa il ralenti, le canzoni pop, la sfocatura – ma nessun espediente; tutto sgorga vivo dal suo spirito ribollente. E poi, quel formato che si allarga sul cielo e sul sorriso di Steve: un’emozione forte per un dato tecnico che si fa anima.
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