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E’ passato quasi inosservato, nella fiacca programmazione di fine estate, questo Der goldene Handschuh, la cui traduzione letterale è Il guanto d’oro: titolo molto più interessante del banale Il Mostro di St. Pauli, perchè è proprio nel malfamato bar omonimo, nucleo pulsante del distretto a luci rosse dell’Amburgo anni ’70, che non solo ha luogo la “formazione” di Fritz Honka ma si condensa metonimicamente tutto l’orrore spirituale che alberga nel killer, riflesso antropologicamente nell’ambiente circostante.
Quello di Akin è uno studio certosino sull’orrido: un’analisi che sfocia nell’implacabilità di una messa in scena rigorosissima, il cui obiettivo è una rappresentazione cruda, denotativa, priva di risonanza. Ciò che vediamo sullo schermo è pura oggettivizzazione di volti, ambienti e azioni. Akin compie un crudele, maniacale e ragionato esercizio di stile; un lavoro formale su ogni aspetto dell’immagine – la composizione dell’inquadratura, il significativo uso del colore nei toni del beige, la predilezione per il primo piano con funzione espressionista, la presenza di elementi rivelatori all’interno del quadro (oggetti, soprammobili), e l’uso della luce (freddo neon o “sporca” penombra).
Al regista non sembra interessare né il peso psicologico dei personaggi (come spesso accade in tanto cinema contemporaneo sui serial killer), né una prospettiva filosofica in cui incastonare la presenza del Male (come fa Von Trier ne La Casa di Jack); tutto è pura fenomenologia, virata in un grottesco avanguardistico: tra le frequentatrici del bar sembra di rivedere le prostitute invecchiate de L’Angelo Azzurro di Sternberg.
Akin non può prescindere dalle suggestioni classiche sulla figura del “mostro” – e infatti nel prologo vediamo Fritz lasciare un’ombra deforme sul muro, come Lorre in M – Il Mostro di Dusseldorf di Lang – ma si affranca subito da ogni luce universalistica, da ogni profondità, per lasciarci in un microcosmo etologico di freaks.
I suoi personaggi si agitano nei lurido, recano sul corpo i segni del Brutto vissuto, incarnato, infine quasi portato in trionfo. Si è accusato Akin di misoginia, per l’assoluta incapacità dei personaggi femminili di opporre una resistenza (anche solo estetica) e per l’abbandono quasi compiaciuto agli atti di Fritz; ma in realtà lo sguardo di Akin è democraticamente misantropico in questa messa in scena di un mondo di pura abiezione, di (auto)corruzione e discesa in un fango senza fine. Il film è una raccolta, un abbecedario (innegabilmente ipnotico) di ogni possibile bruttura concepibile, sia essa di natura sessuale, criminale o organica; un compendio di perversioni e repellenza che Akin inserisce in un preciso disegno estetico.
Il Mostro di St. Pauli, così filologicamente debitore del cinema di Fassbinder – che il regista precipita in una deriva di radicalizzazioni estreme e prive di poesia – ne elude la struggente sensibilità; ed è quasi la vendetta di un autore nei confronti di un’umanità percepità in tutta la sua rozza elementarità pulsionale e fisiologica; un’esposizione anatomica di viventi, non priva di nera ironia, in uno zoo dell’orrore.
Non l’ho visto, ma la tua critica mi ha fatto balenare Harry pioggia di sangue, altra analisi gelida, spietata di meccanismi comportamentali quasi automatici, lettura di un disagio che è “naturalmente” nelle cose del banale reale quotidiano. Lo vedrò
Il 05/09/19, Frammenti di cinema – di Marcella
Mi piace tantissimo ciò che hai descritto, questo stile per niente emozionale – e che tuttavia di emozioni ne suscita, sgradevoli e non di sollievo per il potersi dire “scampati” e “diversi”.
E’ vero, ne suscita, e non se ne vanno