MARTIN EDEN di Pietro Marcello

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Il Martin Eden di Pietro Marcello è una trasposizione personale e fortemente intellettualizzata del romanzo di Jack London: lo è in quanto il regista realizza un film dalla struttura concettualizzata all’interno della quale inserire bagliori di poesia, in cui si percepisce però una certa programmaticità. Si riconosce a Marcello l’abilità nel trasferire in immagine il difficile percorso intrapreso dalla parola, e nel rendere il suo Martin Eden un personaggio autonomo dal testo: un eroe complesso e determinato, sconfitto non solo dall’ordinarietà delle regole umane (incapaci di far proprie l’elevazione dell’arte e della letteratura) e dalla viltà dell’industria culturale, ma anche dalla tensione narcisistica e distruttiva che lo anima.
Martin vive su di sè il dissidio tra arte e vita, tra la volgarità cruda dell’essere e l’ambizione letteraria, tra l’affettazione ipocrita borghese e gli irraggiungibili ideali della filosofia. Il suo percorso è quello del dandy, della scoperta di un irriducibile individualismo: Baudelaire è la sua iniziazione poetica e segna anche la sua formazione spirituale.

Ma là dove Marcello espone la parabola di Martin con un buon talento di narratore, mediante un racconto di impianto tradizionale, in cui la storia procede prevalentemente attraverso il dialogo e l’uso della parola (esplicativa, conversazionale, intima o epistolare), viene a mancare una vera forza immaginifica. Martin Eden è un film di scarsa vocazione visionaria: lo schema seguito dal regista è episodico, macchina a mano, inframmezzato da cartoline d’epoca. In Martin Eden prevale un bozzettismo in cui si cela l’occhio dell’intellettuale che cerca un cortocircuito tra passato e presente, tra un passato colorito e popolare e il seme dell’inquietudine contemporanea.

C’è, in Martin Eden, quasi la tentazione di configurarsi come “fiction di lusso”, melò ambizioso e velleitario, proprio per la sua natura prevalentemente narrativa e per le contrapposizioni elementari tra i personaggi. L’atteggiamento di Marcello è quello dell’autore/creatore che si piega, con una certa condiscendenza, ad osservare il mondo/oggetto del suo racconto: la genuina vitalità popolare, il degrado dei bassifondi, il lusso in cui vive (separata) la classe benestante, il sapere e la conoscenza come “scarto” aristocratico che separa l’intellettuale dalla società. Martin (un bravissimo Marinelli, capace di far intuire i moti dell’anima del protagonista in tutte le sue modulazioni) è anche radicalmente consapevole della sterilità del proprio ruolo, del fallimento tanto a livello individuale che collettivo.

Un film a tesi, in cui la libertà e l’ideale si tingono di azzurro (come i cieli, le camicie di Martin, gli occhi di Elena e il mare a perdifiato) ma in cui il cinema appare costretto a servire un’idea, restando inchiodato a volti, vicoli e tramonti suggestivi. Il cinema-poesia è altrove: e penso alla bellezza davvero libera, luminosa e inafferrabile di Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher.

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