ANNABELLE 3 di Gary Dauberman

ANNABELLE 3*
Il new horror di James Wan ha sempre avuto caratteristiche precise: puritano, borghese, impregnato di superstizione religiosa (ovvero non il mistero del sacro, ma la manifestazione più grezza ed esteriore di una “fede” istituzionale). Il suo universo orrorifico si è via via configurato come sistema perfettamente allineato alla società spettacolare statunitense contemporanea: seriale, passivizzante, dall’immaginario rigido e circoscritto, politicamente dittatoriale.

Assieme a La Llorona, Annabelle 3 è tra i punti più bassi dell’ “industria” di Wan: un prodotto sempre più pedestre, sciatto, dalla scrittura debole. Il marketing prende definitivamente il posto del cinema, l’immagine muore e resta il trucco, l’espediente, l’inganno costante ai danni di uno spettatore inchiodato al suo ruolo di “osservatore stupido”. Il pubblico accetta di buon grado questo cibo-spazzatura dagli aromi artificiali: manca del tutto uno sguardo critico e il desiderio di educarsi all’immagine. Schiacciato da miriadi di serie tv che hanno imposto il trionfo del racconto sulla dimensione visionaria del cinema, lo spettatore si accontenta di basici plot in cui l’aspetto visivo è mera illustrazione di eventi, ripresa schematica di porzioni di reale poi manipolati in post-produzione.

Il montaggio, la luce, la continuità, la significanza dell’inquadratura, il cinema come macchina estetico/filosofica: nulla ha più senso. L’immagine è scomparsa.
Nella sua apparente inoffensività, un film come Annabelle 3 è uno strumento di morte artistica: morte del cinema, morte di quell'”eterna illusione” creazione della Hollywood classica; l’addio al cinema/sogno, piacere degli occhi, suggestione di una realtà altra. Annabelle 3 è l’emblema del cinema più brutto che esista, più insultante ed eticamente criminale. Non apre varchi nella mente dello spettatore, ma la imprigiona in una camicia di forza e la svuota del fantastico. Unica nota positiva, la talentuosa Mckenna Grace, già vista, tra gli altri, in Tonya.

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