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Nè Steven Rogers, sceneggiatore del film, né Craig Gillespie, regista australiano noto per Lars – Una ragazza tutta sua nonché per una solida carriera nel mondo dei commercials – rispondono ai clichè di quella che viene comunemente definita una personalità autoriale. Rogers e Gillespie sono due grandissimi professionisti e il risultato della loro collaborazione, lo sfolgorante Tonya, eccede il loro purissimo artigianato per farsi quadro iperrealistico d’America, arte in cui confluiscono modi ed estetica contemporanei.
Mockumentary concepito a partire dalle interviste originali ai protagonisti, Tonya frantuma la realtà trasformandola in un prisma di versioni contraddittorie, ma legate dai tòpoi che fanno dell’America una categoria antropologica e sociologica distintiva: la riduzione della vita a spettacolo, la volgarità come habitus, l’ambiente rurale foriero di follia primigenia, il redneck come emblema del balordo pulsionale, la violenza quale espressione elementare e quotidiana, il classismo che stratifica la società in privilegiati e rifiuti.
L’idea di Rogers e Gillespie è quella di offrire tante verità quante sono i personaggi, ed allo stesso tempo raccontare un’emblematica storia americana attraverso un linguaggio che proprio in USA ha trovato una codifica. Interviste, newsreel, abolizione del “quarto muro”, fluidità da commercial, sensazionalismo, cronologia spezzata: Tonya parla dell’America e lo fa con i significanti di cui la cultura americana dispone.
Figlio del cinema anni ’70, della serializzazione altmaniana ma allo stesso tempo segnato dai format televisivi, dalla funebre ironia di cui parlava D.F. Wallace, da un voluto anti-intellettualismo che ha l’acutezza dell’analisi, il film di Gillespie si avvicina allo spietato tecnicismo narrativo di La Grande Scommessa o The Wolf of Wall Street, ma preserva una qualità sentimentale e melodrammatica che lo rende più popolare e universale. Tonya è autenticamente emozionante e la sua complessità linguistica è lo strumento per parlarci di esseri umani. Le figure che popolano il film sono il principale oggetto d’amore e osservazione di Rogers e Gillespie, che spezzano il reale per difendere i diversi mondi interiori dei personaggi, depositari di differenti versioni del vissuto. Il regista è particolarmente bravo nel condurre gli spostamenti dei punti di vista, attraverso scivolamenti estremamente fluidi.
L’umanità “balorda e squilibrata” cui Tonya appartiene, la tragica brutalità all’interno della quale la ragazza fa esperienza del mondo non appaiono sminuite dal filtro di umoristico distacco prescelto per il racconto. Assistiamo ad un vaudeville impazzito, gestito dal regista con minuziosa precisione e con scelte registiche di commovente bellezza. Memorabili le competizioni, ciascuna delle quali è girata in modo da esprimere una differente concezione del mondo: l’elevazione, la speranza, l’ampiezza circolare e vertiginosa scelti da Gillespie per i Campionati del ’91 vengono sostituiti da sequenze più segmentate, dalle inquadrature circoscritte e rabbiose delle gare successive.
Gillespie gira il film in trentun giorni, forte di un’esperienza che lo porta a combinare, senza sforzo apparente, emozioni, effetti, ricordo, voce fuori campo, documento e finzione. Il regista tiene in equilibrio il caos, servendosi di piani sequenza illusionistici in cui la verità appare sfaccettata ed elusiva. Nella sua allegria da Saturday Night Live, Tonya allestisce una tragedia la cui protagonista viene lentamente distrutta sotto gli occhi delle folle: sacrificata a David Letterman, ai programmi spazzatura, agli indici di ascolto, alla nostra perversione di spettatori.
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