CLIMAX di Gaspar Noé

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Non per tutti è facile amare Noé: là dove oggi il cinema si arresta, circoscrivendo limiti imposti dal pudore, dal buon gusto o buon senso, da un marketing dell’immagine volto a rendere il visibile soprattutto vendibile, il regista avanza e distrugge, fedele al proprio impulso d’artista; e lo fa con un stile perfettamente controllato. Una messa in scena del caos, della pulsione, dell’abbandono di ogni luce razionale quale si realizza in Climax nasconde in realtà una regia vigile e aderente ad un preciso disegno strutturale.
Vertigine, esaltazione, paura, si accendono per mezzo di una sovraeccitazione sensuale; Noé domina le stanze poetiche del proprio cinema e induce una ipnosi sinestetica.

Basterebbe una scomposizione dei pianisequenza che si succedono nel film per vedere come Noé impartisca una disciplinata partitura agli spazi: la sua macchina da presa, che scivola in un apparente stato di libertà, in una leggerezza mobile che ne fa quasi uno spirito arioso, obbedisce a un movimento complesso e magnifico elaborato dal regista orchestrando colonna sonora e visiva. Quella di Noé è una regia rituale, segue regole precise per spostare i limiti del visibile, sovvertire la visione “passiva” del pubblico e rivoluzionare la sua prospettiva. Un simile linguaggio è necessario per preparare l’anima di chi guarda allo sconvolgimento morale che seguirà, in cui passione e morte sono indissolubilmente legati in un passo di danza; e non è forse, questo legame, il segno ineluttabile che contraddistingue l’umanità?

Gaspar Noé non è, come molti sostengono, un artista sensazionale e superficiale (e basterebbe il dolore incompreso e profondissimo di Love a dimostrarlo): il suo studio dell’uomo è allo stesso tempo estetico, antropologico, poetico. E così è il suo studio del cinema: Climax, nel suo apparente giovanilismo, nell’oltraggio che fa ai codici della visione ribaltando il mondo in un anarchico upside down, nasce da un amore del musical classico; è impossibile infatti non riconoscere le tracce di Bob Fosse, ma persino di Busby Berkeley nel modo in cui i corpi diventano astrazione, movimento puro, arabeschi spaziali.

Partendo dal cinema, Noé trova la strada per l’inferno dell’esperienza umana: la droga, la violenza, il sesso come espedienti per uscire da se stessi, dall’atroce senso di finitezza della vita come incubo irrisolto. Il ballo è l’aspirazione a un’ altezza che non arriva mai: predomina l’impulso alla bassezza, il crudo bisogno di sopraffare l’altro. Nella musica che Noé usa (innestandola all’interno e non all’esterno dell’immagine), nel ballo che sublima l’orrore in bellezza vi è quell’amore cui l’essere umano tende con il proprio istinto malato; ma la violenza è l’approdo, sino al nulla della neve. Un film dal pensiero struggente e dal romanticismo ferito; un musical di morte, da uno dei più grandi uomini di cinema contemporanei.

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