L’UOMO FEDELE di Louis Garrel

uomofedele***

L’uomo fedele è un film di puro mimentismo: nel sentimento che spira dalle immagini, nelle riprese di strade e volti, nel montaggio emotivo, nella dolcezza malinconica della musica. Garrel guarda alla Nouvelle Vague con occhio innamorato e il suo cinema-ricordo è una forma di resistenza: non soltanto ai modi del cinema contemporaneo, ma allo stesso sentire attuale. La donna da lui vagheggiata è una creatura misterica, insondabile, leggera e capricciosa come un fenomeno naturale; a lei, il regista si avvicina con un misto di soggezione ed incanto.

Non sono pochi i primi piani del volto di Garrel in cui cogliamo un’espressione di candore smarrito e riflessivo: potremmo sovrapporvi il viso del giovane Antoine Doinel di Baci Rubati e vederne combaciare le linee, la piega degli occhi o delle labbra. Il grande Jean-Claude Carrière, collaboratore e partner “criminoso” di Bunuel, presta il suo sguardo sull’inafferrabilità femminile e la vanità umana consegnando uno script in cui grazia e buio convivono, l’uno scolorando nell’altro in forme rare ed evanescenti; ma si avverte una stanchezza nell’autore (ormai 87enne) e la rarefazione rischia l’inconsistenza e la maniera.

Garrel mette in scena questo conte moral con una regia estremamente sensibile e musicale: molto bella l’apertura del film, per la perfetta orchestrazione degli sguardi, l’essenzialità tragicomica del dialogo, fino al carrello indietro che separa Abel, vertiginosamente, dalla sua Marianne. Garrel gira con amore, fa della macchina da presa la sua penna, osserva persone, corpi, la città. Il suo istinto al contrappunto è palpabile anche nell’uso che viene fatto della voce fuori campo: parole come suoni, combinazioni di melodie, flusso di coscienza come “discorso” sonoro; l’immagine è di per sè sufficiente all’elaborazione del racconto, ma elegge la voce off a sua componente sensibile.

Nella brevità dei suoi 75 minuti, il film si spegne in un voluto anti-climax e si accontenta di una conciliante irresolutezza: il quadro parigino è un bozzetto non finito, studio di caratteri che si esaurisce in un sospiro. Brava Lily-Rose Depp, il cui personaggio è un lampo di futuro che irrompe tra tante squisitezza nostalgiche; più rigida Laetitia Casta, che non riesce a conferire alla sua Marianne la necessaria ambiguità, la sfumatura enigmatica in cui annega l’anima di Abel.

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