OLD MAN & THE GUN di David Lowery

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Le star di Hollywood, secondo l’accezione classica che le vede irraggiungibili, separate dalla dimensione meramente umana (a differenza del nuovo star-system che, mediante l’uso dei social, le ha rese accessibili presenze quotidiane) hanno il privilegio di poter creare un immaginario relativo alla propria morte. Un attore del calibro di Redford, che ha solcato il tempo, le diverse correnti cinematografiche, la mutata concezione di rappresentazione della realtà attraverso il cinema (anche grazie al Sundance Festival da lui ideato) ha dunque la possibilità di chiudere non solo la propria carriera, ma un’esistenza dall’aura mitica consegnandoci una “chiusa” agiografica ed iconografica: un epilogo immerso nella memoria e nel sogno.

Perchè è chiaro che un film come Old Man & The Gun è un trattato metacinematografico sull’immagine-Redford. David Lowery, che lo ha scritto e diretto, ha saputo offrire al suo testo filmico una grazia lieve, un fascino che proviene dalla sovrapposizione dell’immagine/Redford a quella del personaggio/Tucker. Raccontare Forrest Tucker per raccontare Redford: la straordinarietà dell’attore, la sua ricerca di una esperienza esistenziale inscindibile da quella cinematografica viene metaforizzata da una vita fuorilegge, oltre i confini della normalità, costantemente in bilico tra realtà e leggenda.

Lowery inserisce Redford in scene interrotte da jump-cuts: il regista frantuma spesso la continuità dell’azione con un montaggio spezzato, sussultorio; ferma il tempo, induce lo spettatore a sospendere la propria trance passiva di fronte al flusso degli eventi per riflettere sull’immagine mostrata: quella di un attore alle prese col proprio mito.
Redford in primissimo piano, inquadrato nella fragilità di ogni ruga, nella dolcezza delle palpebre che scivolano nel buio, non è mai altri che se stesso; Redford interpreta Tucker che interpreta Redford – e le scene rubate al passato cinematografico dell’attore, utilizzate per dare “corpo” al percorso esistenziale di Tucker, potenziano questa mimesi all’infinito.

Lowery è un regista di grande raffinatezza, mai esibita, viva negli interstizi di un film che respira attraverso sottigliezze impercettibili, gesti, rapide inquadrature, composizioni significanti. L’elemento portante – ma anche il limite – di Old Man & The Gun è la sua leggerezza: un vento malinconico che spira avvolgendo il film di ricordo. I capelli di Redford sono appena scomposti da questra brezza: la sua stella, segnata e vulnerabile, brilla luminosa per l’ultima volta.
Old Man & The Gun non offre personaggi approfonditi ma funzioni: Tom Waits è un mood, una nota blues; Sissy Spacek è appena un alibi romantico; e persino il bravissimo Casey Affleck, capace di dosare ogni espressione e di indossare le emozioni più profonde, non può far uscire il suo tormentato detective dai confini del proprio ruolo: che è quello di dare luce a Redford, guardare con occhio nostalgico il suo scomparire all’orizzonte come il pallido eroe d’un sogno.

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