WIDOWS di Steve McQueen

WIDOWS****
Steve McQueen, tra i più brillanti autori della sua generazione, torna dopo 12 Anni Schiavo portando sullo schermo uno dei fantasmi della sua infanzia: la miniserie televisiva britannica Widows di Lynda La Plante, in onda negli anni ’80. McQueen ha spiegato in più di un’intervista la sua scelta apparentemente bizzarra: nelle donne del telefilm, considerate deboli ed incapaci da famiglia e società, il regista allora giovanissimo finì con l’identificarsi. L’essere un bambino di colore, giudicato inferiore e privo di valore sociale, determinò una immediata connessione con le protagoniste di cui condivideva la ricerca di un riscatto.

Widows nasce quindi come passione resa concreta, ricordo attualizzato alla moderna sensibilità. McQueen stabilisce da subito la natura del film con un incipit strepitoso, un montaggio che interlaccia le vite private dei personaggi con una scena d’azione stupefacente. Momenti d’amore, conversazioni, immagini di violenze domestiche in interni vengono alternati ad intermittenti, esplosive immagini di una rapina, immettendo subito lo spettatore in un’opera pulsante in cui crime e melodramma sono inscindibili; cinema “lurido” e “nobile”, distinzioni che McQueen vuole svecchiare, confondendole e infiammandole reciprocamente. Ma Widows è, soprattutto, un “film di donne” in senso classico (pensiamo a Cukor e Sirk).

McQueen, regista che ama i propri attori, ha una passione umanistica che lo porta a carezzare le sue protagoniste, avvolgerle nello sguardo empatico della sua macchina da presa; il suo interesse è raccontarle, sollevare il velo del rigido stereotipo che solitamente inchioda i personaggi femminili dei thriller al loro mero valore funzionale.
R.W. Fassbinder, a proposito di Douglas Sirk, scrisse: “nei suoi film vediamo le donne pensare, ed è bellissimo”*. Widows è estremamente sirkiano nella sua osservazione del femminile: analizza i pensieri, i moti dell’animo, e lavora affinché le categorie in cui le donne sono state imprigionate – nella finzione filmica quanto, metacinematograficamente, nel sistema hollywoodiano dei generi – vengano disgregate. Widows è l’opera di un regista femminista, ma ostinatamente privo di pedanteria: la tela di impegno civile è intessuta tra le maglie di un grandissimo intrattenimento.

McQueen sfida le convenzioni del genere consegnandoci un’opera tecnicamente sfavillante, tanto spettacolare quanto autoriale. Dai complessi movimenti di macchina, metafore della (falsa) gloria di Jack Mulligan (Colin Farrell), ai vorticosi abissi criminali di Jatemme (Daniel Kaluuya), dal monologo corleoniano di Jamal Manning (Brian Tyree Henry) alla staticità sofferta dei primi piani su Veronica (Viola Davis), McQueen non abbandona mai il suo film all’anonimato e rigetta l’uso di codici logori. Un film potentissimo, personale, continuamente in bilico tra cinema “alto” e “basso” (schematismi che McQueen disdegna profondamente) e in grado di spalancarci un immaginario nuovo sui topoi ormai consunti del crime.

(* R.W. Fassbinder, “I film liberano la testa”)

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