UN SOGNO CHIAMATO FLORIDA di Sean Baker

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Il regista Sean Baker restituisce verità al cinema indie, facendoci dimenticare la gradevolezza conciliatoria di Lady Bird. Un sogno chiamato Florida (The Florida Project) è prima di tutto la storia di uno sguardo: quello di Moonee, bambina di sei anni che vive ai margini del grande sogno americano, in un residence nei pressi della disneyana Orlando. Uno sguardo cui si sovrappone quello del giovane Baker, regista di grande talento in grado di offrirci una complessa esperienza percettiva: al reale oggettivamente dimesso, periferico, abitato da esseri umani alla deriva, conferisce l’aura magica che appartiene alla sensibilità di Moonee, trasfigurandolo.
Ogni cosa che vediamo sullo schermo ha una doppia valenza semantica: è il sogno e il disincanto. Moonee si muove nelle strade e nei parchi di Kissimme e in lei sembra di scorgere la protagonista di un romanzo di Mark Twain: un’anima innocente che sfiora il baratro, una fanciulla che gioca col pericolo nella vastità del paesaggio americano. The Florida Project misura la distanza che c’è tra l’adulto e il bambino, tra lo spettatore impietosito dalla condizione di Mooneee e il senso di avventura “oltre il visibile” che appartiene alla bambina. Ma il divario è anche quello tra Kissimme e il Disney World, tra i castelli incantati e le stamberghe infestate dagli insetti: nel microcosmo allestito dal film ci sono tutte le contraddizioni di un Paese in cui esclusi e privilegiati vivono in stato di adiacenza, in un clima di isteria che spezza e corrode.

Il regista Baker allestisce la grande illusione di Moonee e dei suoi amici in formato panoramico: sotto il caldo occhio del cielo, il mondo dei bambini è infinito; ogni cosa che viene toccata dal loro sguardo si apre in orizzontale, diviene la prospettiva di una promessa. Quello di Baker è cinema dello spazio, terreno d’avventura, in cui un arcobaleno abbracciato nella sua ampiezza è metafora della magia che sovrasta il mondo. Le riprese sono effettuate a misura di bambino, e ogni edificio, ogni presenza umana, ogni oggetto diventa un’occasione per trasformare la vita in favola.

Diversamente, il mondo visto attraverso gli occhi di Halley, la giovane madre di Moonee, è quasi sempre reso attraverso inquadrature claustrofobiche, riprese in interni, prive di luce e colore. Halley fuma sigaretta dopo sigaretta, e chiude all’interno dello striminzito appartamento la sua incapacità alla vita. Bambina anch’ella, ma spezzata, Halley vive in preda a pulsioni e in un costante senso di precarietà ed improvvisazione: è come un animale braccato, con la vita alle calcagna. Baker ce la mostra in primissimi piani, lo sguardo assente; oppure a figura intera, sul balcone, attraverso una porta: un’eterna prigioniera dello spazio in cui non sa muoversi. Il suo amore per Moonee è selvatico e profondo: la bambina è il suo unico tramite con l’esterno, è la complice e la guida attraverso un’esistenza aliena.

Su di loro veglia, come un eroe fordiano e silenzioso, Baker/Willem Dafoe: il custode del motel, un idealista che sogna una comunità civile. La sua presenza ci rimanda al passato dei grandi personaggi della letteratura americana (di Steinbeck, o Faulkner) desiderosi di elevarsi, di affrancarsi da un’esistenza di miseria e sofferenza. Baker lo inquadra spesso in primo piano, stagliato sull’azzurro, leggermente inquadrato dal basso a sottolinearne la statura morale, il sogno.
The Florida Project è talmente imbevuto d’America da aver preferito la pellicola, perchè il Grande Paese ritrova i suoi veri colori solo nel calore e nella densità atmosferica del film. Al digitale è affidato solo il finale: la fuga accelerata verso il futuro, l’amore e la libertà dei bambini, protagonisti inafferabili di una nuova Nouvelle Vague che si rifiuta di piegarsi ad un finale già scritto.

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