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Perchè Valerian non è piaciuto al pubblico americano? Perchè, in primo luogo, l’ultimo film di Besson è un lavoro estremamente personale, non livellato per una platea internazionale. Il gusto che lo domina è profondamente francese: colto, intellettuale, citazionista, parodico, con una predilezione per un’estetica raffinata al limite del grottesco. Valerian estremizza l’universo creato ne Il Quinto Elemento: dai suoi abiti haute couture firmati Jean Paul Gaultier al brulicare di personaggi bizzarri, incarnazione di quel limitare tra ridicolo e tragico che è tipico della sensibilità del regista. In fondo la Diva de Il Quinto Elemento, rappresentazione dell’Artista intrappolata nell’impossibilità di un corpo che corrisponda al sublime della propria ispirazione, non è dissimile dalla ballerina Bubble interpretata da Rihanna, uno dei personaggi più vivi e belli del film.
Besson scrive, dirige e produce un progetto che è la summa delle sue ossessioni: il piacere di un fantastico liberato dai limiti fisici; la predilezione per una protagonista femminile forte, cui è affidata una responsabilità collettiva (come LeeLoo, Nikita, Jeanne d’Arc, Lucy); una concezione del vivere segnatamente melodrammatica, cui contrapporre l’ironica istintività dei propri personaggi. In Valerian, Besson presenta anche l’idea audace di un corpo in cui maschile e femminile si sovrappongono: un nuovo sentire che è anche una forma di liberazione sessuale.
Il film è una fatasmagoria visiva che si serve di un apparato di effetti speciali realizzati, tra gli altri, da Industrial Light&Magic, Weta Digital e Rodeo Fx. Besson interpreta il proprio spirito segnatamente novecentesco con l’occhio futuristico di James Cameron: Valerian è un caleidoscopio di schegge di cinema passato che il regista proietta in avanti, con un profondo senso avveniristico. Questa compresenza di memorie e futuro è l’aspetto più affascinante del film, che porta dentro di sé immagini di Tron, di Star Wars, de I Predatori dell’Arca Perduta (un film cui Besson è particolarmente legato), e persino evanescenti apparizioni di un illusionismo alla Méliès; ma tutto è inserito in una visione di cui James Cameron è l’ispiratore: quella di un cinema reso infinito dalla tecnologia, il cui solo limite è l’immaginazione.
Avatar rappresenta, per Besson, una perfezione tecnologica cui il regista francese guarda con un obbiettivo senso di inferiorità, e l’aspirazione ad un demone creativo che è allo stesso tempo uno stimolo ed una maledizione. A Besson manca la visione di cinema come vita stessa, manca lo sguardo etico: il suo talento invece è il gioco, la favola, l’avventura dello sguardo che si sospinge nel regno dell’immaginazione. La città dei mille pianeti – globale, cosmopolita, compresenza di operosità e dissolutezza lasciva – non è differente dalla New York futuristica de Il Quinto Elemento; Besson vi si immerge con una regia ancor più accelerata, in caduta libera nel vuoto dell’universo, proiettata in inseguimenti oltre le coordinate spazio-temporali a noi conosciute. Si sente l’influenza di un immaginario da video-gamer, ma l’astrattezza dei paesaggi digitali è illuminata dalla “difettosa” presenza umana: Valerian e Laureline, vanitosi ed eccentrici, portano i propri abiti insensati, le involontarie goffaggini, la propria corporeità intrusiva in un mondo che ha bisogno della loro irresistibile, orgogliosa fragilità. Dane DeHaan e Cara Delevingne interpretano due eroi emblematici del contemporaneo: esseri umani potenziati dal digitale e resi incoscienti dalla propria presunzione; ma col sogno dell’amore.
Besson è chiaramente un autore, e gli americani non hanno molto rispetto per chi ha un’idea di cinema indipendente e non sempre conciliabile con la loro. Detto questo, è anche un autore che nella sua carriera ha sbagliato moltissimo, quindi finché non avrò visto il film preferisco non prendere posizione 🙂