VALERIAN E LA CITTA’ DEI MILLE PIANETI di Luc Besson

valeriantop***1/2
Perchè Valerian non è piaciuto al pubblico americano? Perchè, in primo luogo, l’ultimo film di Besson è un lavoro estremamente personale, non livellato per una platea internazionale. Il gusto che lo domina è profondamente francese: colto, intellettuale, citazionista, parodico, con una predilezione per un’estetica raffinata al limite del grottesco. Valerian estremizza l’universo creato ne Il Quinto Elemento: dai suoi abiti haute couture firmati Jean Paul Gaultier al brulicare di personaggi bizzarri, incarnazione di quel limitare tra ridicolo e tragico che è tipico della sensibilità del regista. In fondo la Diva de Il Quinto Elemento, rappresentazione dell’Artista intrappolata nell’impossibilità di un corpo che corrisponda al sublime della propria ispirazione, non è dissimile dalla ballerina Bubble interpretata da Rihanna, uno dei personaggi più vivi e belli del film.

Besson scrive, dirige e produce un progetto che è la summa delle sue ossessioni: il piacere di un fantastico liberato dai limiti fisici; la predilezione per una protagonista femminile forte, cui è affidata una responsabilità collettiva (come LeeLoo, Nikita, Jeanne d’Arc, Lucy); una concezione del vivere segnatamente melodrammatica, cui contrapporre l’ironica istintività dei propri personaggi. In Valerian, Besson presenta anche l’idea audace di un corpo in cui maschile e femminile si sovrappongono: un nuovo sentire che è anche una forma di liberazione sessuale.

Il film è una fatasmagoria visiva che si serve di un apparato di effetti speciali realizzati, tra gli altri, da Industrial Light&Magic, Weta Digital e Rodeo Fx. Besson interpreta il proprio spirito segnatamente novecentesco con l’occhio futuristico di James Cameron: Valerian è un caleidoscopio di schegge di cinema passato che il regista proietta in avanti, con un profondo senso avveniristico. Questa compresenza di memorie e futuro è l’aspetto più affascinante del film, che porta dentro di sé immagini di Tron, di Star Wars, de I Predatori dell’Arca Perduta (un film cui Besson è particolarmente legato), e persino evanescenti apparizioni di un illusionismo alla Méliès; ma tutto è inserito in una visione di cui James Cameron è l’ispiratore: quella di un cinema reso infinito dalla tecnologia, il cui solo limite è l’immaginazione.

Avatar rappresenta, per Besson, una perfezione tecnologica cui il regista francese guarda con un obbiettivo senso di inferiorità, e l’aspirazione ad un demone creativo che è allo stesso tempo uno stimolo ed una maledizione. A Besson manca la visione di cinema come vita stessa, manca lo sguardo etico: il suo talento invece è il gioco, la favola, l’avventura dello sguardo che si sospinge nel regno dell’immaginazione. La città dei mille pianeti – globale, cosmopolita, compresenza di operosità e dissolutezza lasciva – non è differente dalla New York futuristica de Il Quinto Elemento; Besson vi si immerge con una regia ancor più accelerata, in caduta libera nel vuoto dell’universo, proiettata in inseguimenti oltre le coordinate spazio-temporali a noi conosciute. Si sente l’influenza di un immaginario da video-gamer, ma l’astrattezza dei paesaggi digitali è illuminata dalla “difettosa” presenza umana: Valerian e Laureline, vanitosi ed eccentrici, portano i propri abiti insensati, le involontarie goffaggini, la propria corporeità intrusiva in un mondo che ha bisogno della loro irresistibile, orgogliosa fragilità. Dane DeHaan e Cara Delevingne interpretano due eroi emblematici del contemporaneo: esseri umani potenziati dal digitale e resi incoscienti dalla propria presunzione; ma col sogno dell’amore.

LA CURA DAL BENESSERE di Gore Verbinski

cure***
C’è veramente da ammirare il coraggio di Gore Verbinski: tra i pochissimi, nel panorama di Hollywood, a correre dei rischi, a perseguire pervicacemente una visione personale che non si preoccupa di compiacere il pubblico, nè di asservirsi ad un mercato che chiede asettica professionalità e ripetizione di schemi collaudati. Il suo La Cura dal Benessere stordisce lo spettatore con due ore e mezzo di durata: una lunghezza estenuante e satura di suggestioni, al punto che sui titoli di coda si ha l’impressione di aver assistito ad una tragica catastrofe, un film-Frankenstein composto da una sequenza di declinazioni dell’horror, male amalgamate tra loro.

Eppure che fallimento affascinante, che audacia quasi suicida in quest’opera terribilmente ambiziosa. Verbinski viene fagocitato dal suo desiderio di grandeur che rincorre senza compromessi, e senza timore del ridicolo (in cui cade in una varietà di scene). Muovendo da un impianto scorsesiano (Shutter Island), Verbinski fa confluire la sua cinefilia nel magma di La Cura dal Benessere: da Stanley Kubrick (con echi che includono Arancia Meccanica, Shining e Eyes Wide Shut) al gotico della Hammer, dal body horror di Stuart Gordon o Yuzna alle vasche allucinatorie di Ken Russell, da Hitchcock (con una scoperta citazione di Vertigo) ai B movies anni ’70, passando per suggestioni burtoniane (soprattutto la colonna sonora) fino all’autocitazione (The Ring). Un progetto destinato all’implosione, al collasso per eccesso narcisistico.

Il film procede, senza troppo curarsi del buon gusto, attraverso una continua mutazione/immersione in una varietà di codici stilistici, finchè non giunge ad un senso di affaticamento e saturazione. Non è tanto l’assenza di coerenza stilistica a pesare – in fondo il cinema “incoerente” e sporco è anche vivificante – quanto un’enumerazione che si fa sterile, e finisce con l’appagare solo l’ego del regista, traballando su vuoti strutturali e spunti di trama abbandonati. Eppure, in tanto affastellarsi farraginoso brillano sequenze di grande fascino, come il ballo della giovanissima Mia Goth nel bar del paese, tra punk e guardoni: un momento di pura perversione, con la Goth che sembra reincarnare le giovani maladolescenti del cinema anni 70, da Eva Ionesco a Therese Ann Savoy.

E sono proprio i due protagonisti gli elementi più magnetici del film: i volti di Dane DeHaan e Mia Goth, così anomali e lontani dai canoni hollywoodiani di bellezza, da soli esprimono un sentimento di differenza, un’anomalia perturbante. Dane DeHaan col suo sguardo cavo, pallido e alieno (quasi un giovane Bowie) e Mia Goth, innocente e perversa, appaiono così meravigliosamente fuori posto nell’horror contemporaneo, popolato da visini puliti e rassicuranti (si pensi alle ragazzine di The Conjuring 2 o Oujia 2, ma anche della serie tv The Exorcist).
La fuga in bicicletta di DeHaan e della Goth, giù a perdifiato lungo la discesa, cadaverici e catatonici, è un momento di una squisitezza surreale; di rado assistiamo a scene così insolite nel cinema di Hollywood, e di questo dobbiamo ringraziare Verbinski, che si addentra in territori ancor più oscuri e controversi (come l’incesto e la pedofilia). Nel bene e nel male, La Cura dal Benessere è un film indimenticabile.