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Il realismo di un film come Dopo l’amore solitamente induce a fraintendimenti: molti spettatori, ma anche recensori, lo descrivono come una “presa diretta” della realtà, una fotografia del vissuto. E in effetti il regista Joachim Lafosse fa apparire “facile” il suo stile: come se aderisse alla vita senza intromissioni e senza turbarne il flusso naturale. Al contrario, Dopo l’amore formalmente risponde ad una costruzione sottile e invisibile: sin dalle prime scene Lafosse imbastisce un racconto parallelo, spostando ritmicamente l’attenzione da un personaggio all’altro. Lo fa con l’alternanza della messa a fuoco, che crea una danza di volti all’interno dell’inquadratura; oppure attraverso piani significativi che scelgono di mostrare un personaggio nella sua interezza, e l’altro tagliato: come l’entrata in scena di Boris, che ce lo mostra “senza testa”, come se per Marie egli non avesse più un volto.
Similmente il dialogo si sviluppa lungo un doppio registro: mentre i piani sequenza seguono ossessivamente i personaggi, il punto di vista della narrazione scivola dall’uno all’altro. La loro è una voce doppia: un dualismo che ritroviamo anche nel “racconto morale” che impregna il film, e che ci porta ad aderire di volta in volta alle verità asserite dai due protagonisti, senza identificazioni definitive.
E’ un film sulla verità tremula e inafferrabile, sui punti di vista che filtrano le cose, sull’impossibilità di individuare una visione oggettiva degli eventi. La chiave è il due, la coppia, il doppio sguardo, anche quando l’amore finisce. Boris e Marie restano due nell’interpretazione dei fatti, due nella versione dei sentimenti, due nelle conseguenze e nella responsabilità. Ma è un due spezzato, sfocato, ondivago, che ha perso presa sulla cose, che procede incerto e zoppicante. Ognuna delle due estremità reclama un’indipendenza e un’autonomia; allo stesso tempo, i primi “movimenti” solitari sono incerti e timorosi, e si ammantano di alibi per ritrovare l’altro, per conservarlo all’interno della propria realtà.
L’economia della coppia, il titolo originale del film, sancisce con secchezza la natura di contratto del rapporto: e dopo l’amore resta il simulacro della cellula sociale, da gestire in termini “economici” separando cose e proprietà. Joachim Lafosse sceglie momenti esemplari, isola i suoi personaggi, li smarrisce, li rende muti e vinti di fronte al presente; eppure ancora in preda a un desiderio che resiste. La scena che si svolge sulle note della canzone “Bella” è un complesso, struggente esempio di costruzione di un momento drammatico e significativo, carico di passato, paure e sogni infranti in cui si sciolgono i nodi dei due caratteri.
Ogni risoluzione lascia aperti rimpianti e possibilità, esattamente come le porte di cui il regista si serve per mostrarci l’interazione della coppia: porte attraverso cui un personaggio sparisce o viene osservato; porta come un indizio di fuori campo, di storia che non ci viene svelata.
Dopo l’amore ci fa sentire fragili e fallimentari in quanto il suo studio sulla transitorietà delle cose non approda a soluzioni né ad un riposo: è un film sul provvisorio e l’incomunicabilità, quel toccarsi senza mai davvero raggiungersi che è il nucleo di sofferenza di ogni rapporto d’amore.