Con Veloce come il vento il cinema italiano riapre gli occhi. Così com’è accaduto con altri notevoli film italiani recenti, anche l’opera di Matteo Rovere si emancipa da quel solaio cinematografico – di vecchie idee, vecchi personaggi, schemi narrativi e linguaggi usurati – che hanno afflitto il cinema italiano per anni. Ci troviamo di fronte ad un’opera giovane, innocente come la sua protagonista (una bravissima Matilda De Angelis), che guarda al reale senza il peso del passato, restituendoci un flusso nuovo e vitale. Il film di Rovere narra per immagini e se questo sembra scontato, dal momento che si tratta di cinema, ricordiamoci che negli ultimi anni, a parte rare eccezioni, le produzioni italiane si sono abbandonate ad una sciatteria e piattezza visive senza pari, preferendo la frontalità elementare del film parlato, nella commedia quanto nel dramma. Contenutistico, conservatore, televisivo, il cinema italiano per anni ha vagato senza uno stile e un ideale estetico. Soprattutto si è arenato nella paura e nell’incapacità di abbandonarsi ad un’immagine che fosse slegata da un precetto, un messaggio.
Rovere invece ci restituisce il piacere del racconto, apre gli occhi sulla strada e sui suoi personaggi, dimentico di qualsiasi intento didattico.
Va subito notato come egli cerchi, attraverso la messa in scena, una coerenza estetica, un senso di bellezza anche astratto che metta in risalto l’anima sfrenata dei propri personaggi; e questa coerenza è data dall’azzurro che attraversa ogni scena. L’azzurro dei capelli di Giulia; delle pareti della casa; di oggetti, e delle decorazioni dell’auto. Questa attenzione cromatica, che elegge l’azzurro come colore distintivo, diventa una sorta di manifesto nel caso di Veloce come il vento: Rovere è più attento alle percezioni sensoriali che alle parole. E sceglie due attori perfetti per questo film istintivo, animalesco, in cui gli sguardi, il contatto, l’energia sprigionata dai corpi e trasferita nella meccanica delle auto conta più di dialoghi e inutile dispendio verbale. Ciò che Rovere ci racconta passa attraverso la retina e le sensazioni che da essa si sprigionano.
Le scene d’azione sono filmate con un realismo e una velocità lontane dal montaggio e postproduzione disumani di Fast&Furious: a Rovere interessa la partecipazione dei nostri sensi, non schiacciarli, quindi si attiene ad un movimento ed una velocità percepibili; memore, semmai, delle riprese di Rush di Ron Howard, che passavano, con uno stacco, dalla strada agli occhi del pilota: un movimento-emozione.
Il film è incentrato sul campionato GT, ma Rovere immerge la sue corse simboliche (il riscatto, la velocità di una vita che non è mai tutta sotto controllo) in visioni di campagne ancestrali e case coloniche sospese nel tempo. Ed è qui, in questo contesto di innocenza naturale che si forma il rapporto tra Giulia e suo fratello Loris, un incredibile Stefano Accorsi. Accorsi crea un personaggio talmente vero da farci dimenticare qualsiasi finzione. Egli diviene Loris. A differenza di tante italiche glorie, Accorsi qui rinuncia a qualsiasi narcisismo e non “recita” mai: semplicemente è. Non eccede, e ha un rispetto fortissimo di un personaggio che non perde mai la sua profonda drammaticità.
Veloce come il vento è cinema “nuovo” tanto nell’entusiasmo con cui si getta nel puro piacere degli occhi, quanto nella freschezza e verità delle performance attoriali. Nei trenta gradi della pianura romagnola, ci ricorda che il cinema italiano sa ancora respirare.
Ma magari fosse arrivata l’ora di scrollarci di dosso le schifo di commediole che sforniamo da lustr e lustri!
L’ora è passata da un pezzo! 🙂
Ma a quanto pare alcuni registi/produttori/spettatori non se ne sono accorti…