Il Figlio di Saul è tra le forme più compiute di quel cinema “nuovo” che non si accontenta più di uno spettatore frontale: stiamo assistendo ad una rivoluzione simile a quella avvenuta nel romanzo del primo novecento, quando, abbandonato il naturalismo, la linearità, il racconto tradizionale, il lettore sperimentava “dall’interno” la realtà, frantumata e interiorizzata attraverso l’io dei protagonisti. Per un film come Il figlio di Saul andrebbe accantonato il termine “spettatore”, che rimanda ad un “vedere senza prendere parte”, perchè quello che fa il regista László Nemes è equiparabile alle tecniche narrative novecentesche che ci portavano a vivere, da dentro, l’esperienza di un uomo “disintegrato”.
Il pubblico de Il Figlio di Saul è dentro il corpo del film, tanto Nemes ci trascina all’interno dello spazio filmico; la percezione si fa quasi tattile, ed è impossibile porre una distanza tra noi e l’immagine. Lo spettatore è il peso che Saul si porta addosso: il nostro sguardo è posto ad una prossimità quasi insostenibile.
Costretti dentro l’immagine, partecipiamo dell’esperienza di Saul – che è quella di un Orfeo svuotato, umiliato e privato di se stesso, eppure irriducibile nel voler trascinare al di fuori degli inferi il corpo del figlio. L’odissea che egli vive si compone di orrori indicibili, ripetuti, moltiplicati fino a permeare ogni secondo di vita; orrori cui egli può sopravvivere solo svuotandoli di senso, annebbiandone la percezione, trasformandoli in oggetti distanti, senza identificazione, senza associazione di processi emotivi. Nel cinema di Nemes questo indistinto emozionale e percettivo si trasforma in indistinto figurativo. La sfocatura ha valore di resistenza e automatismo: permette all’io (del protagonista, ma anche nostro) di resistere e si traduce in cinema che ha un rispetto sacro della Storia. Un cinema che si mantiene fedele, per l’intera durata di 1h 47m, alla forma che Nemes elegge come rappresentazione possibile.
All’opposto del tagliente Men behind the sun (1992) di T.F. Mou (incentrato sugli esperimenti compiuti dall’esercito Giapponese su cavie cinesi durante la Seconda guerra mondiale), qui l’irrappresentabile è lasciato ad un indistinto ben più potente, in cui l’immaginazione condensa non un’unica morte, ma tutte le morti. Men behind the sun era un atto d’accusa frontale, nitido e definito fino al particolare più aberrante. Il Figlio di Saul rompe ogni diaframma, si innesta direttamente nell’inconscio e lascia che la Storia insorga in forma di “ritorno di un rimosso” viscerale, malato, innominabile.
Il film di Tornatore è uno di quei fallimenti interessanti e fecondi; talmente sbagliato sotto molti aspetti, eppure capace di lasciare una memoria di sé evocativa ed affascinante. Un film che, soprattutto, ha il pregio di non essere mai né compromissorio, né compiacente, come invece accade a tanto cinema italiano. Tornatore ha un gran coraggio: La Corrispondenza è lo specchio delle proprie ossessioni, idee (di cinema e di vita), che il regista cerca di esprimere e comunicare al pubblico senza adulazioni, e con i tempi (irrimediabilmente dilatati) che egli ritiene appropriati. In questo è un artista rigoroso, puro: resta fedele alla sua autorialità senza temere il ridicolo. Un atteggiamento che ne fa tra i più romantici – in senso classico – dei nostri registi.
Revenant è un film interiore, non un film di genere. Per chi non ama Alejandro G. Iñárritu, è il suo limite; per chi lo ama, il suo specifico.
“La mia relazione con Bowie è iniziata quando avevo 13 anni. Acquistai una copia di Aladdin Sane quando non avevo un giradischi, e ho avuto questo disco per un anno prima di poterlo ascoltare. Era l’immagine, non il suono, ad attrarmi” (Tilda Swinton)
La voce fuori campo di Assolo è una figura retorica: non solo un espediente narrativo, ma anche una simbolica “parte per il tutto”. Esattamente come l’onnipresente voce fuori campo esplora capillarmente (fino al logorio) movimenti e pensieri della protagonista, tutto il film parla solo ed esclusivamente di Flavia. E ci si sorprende di quanto un personaggio descritto come insicuro/infantile, privo di autonomia, incapace di esercitare un possesso consapevole del proprio corpo, sappia raccontarsi in forme tanto razionali e pseudo-analitiche. Per quanto la Morante voglia farci credere il contrario, Flavia sa parlare fin troppo bene di se stessa.
Carol non è, forse, il miglior film di Haynes, ma un’opera importante in cui la storia d’amore diviene lo strumento per mettere a confronto due mondi e due linguaggi.
Presente nelle top ten 2015 della maggioranza dei critici americani, La Grande Scommessa è una satira ipertrofica per giustapposizione di stili, logorrea verbale, contaminazione fiction/documentario e moltiplicazione dei livelli narrativi; il tutto frantumato in una miriade di immagini ricomposte in un flusso dinamico che porta le tecniche televisive al parossisimo.
E’ difficile parlare male di un film come Perfect day, mosso da un positivo idealismo e pervaso da un’amabilità (troppo) programmatica, una sorta di luce ideale che rischiara un triste capitolo della storia recente. Ci sono anche due protagonisti maschili – presenze forti e carismatiche – capaci di trasformare un dialogo debole in momenti irresistibili: in particolare, Tim Robbins fa del suo personaggio un carattere denso, sfumato, carico di passato, allusivo in ogni sguardo e ogni frase. Robbins, da solo, è una presenza altmaniana ironica e dolorosa. Eppure né lui, né lo sguardo ombroso di Del Toro bastano a risollevare un film che resta precario e inconsistente.
Il Ponte delle Spie è un film imperfetto e diseguale; eppure persino con un film così compromissorio Spielberg si conferma un regista straordinario, che però sacrifica molto del suo talento artistico ad una narrazione apologetica della storia d’America.