IL PONTE DELLE SPIE di Steven Spielberg

pontedellespieIl Ponte delle Spie è un film imperfetto e diseguale; eppure persino con un film così compromissorio Spielberg si conferma un regista straordinario, che però sacrifica molto del suo talento artistico ad una narrazione apologetica della storia d’America.
Il Ponte delle Spie racconta una storia già narrata serialmente dal cinema americano: quella dell’uomo comune capace di trasformarsi, per evenienze, caso, necessità, in eroe mosso da ideali di giustizia e con un ruolo esemplare per la comunità smarrita. Si tratta di una storia messa in scena, in forme diverse, da tantissimo cinema USA – che si tratti di supereroi marvelliani o riallestimenti di vicende realmente accadute; e di questa grande epica americana Tom Hanks è sempre stato uno degli attori feticcio, il volto ed il corpo più soggetti a typecasting del cinema di Hollywood.
Spielberg ce lo ripresenta nelle vesti di cittadino dotato di un innato senso di giustizia e una profonda devozione ai principi della costituzione – e della sua professione – prestato, in modo naturale, senza sforzo apparente, a vivere eventi eccezionali.
Ma se a Spielberg sta a cuore il racconto, la presentazione degli eventi, la contrapposizione singolo/comunità e il confronto tra due paesi in questo spaccato di storia ambientata negli anni paranoici della Guerra Fredda, il film invece cova il suo nucleo pulsante in scene astratte, svincolate dalla narrazione: lo Spielberg migliore è quello che si dimentica del suo trattato, delle tesi, del positivismo autocelebrante.
Si possono isolare quattro momenti-chiave che si stagliano sulla professionale medietà del film:
il primo è l’inizio hitchockiano, girato con stile moderno e pragmatico ma anche con un fascino illusorio che ci immerge in un labirinto visivo; una scena che possiede un dono chiaroscurale che manca al film come testo, e che invece trionfa nel puro dinamismo astratto delle sequenze.
La seconda scena indimenticabile è l’attacco all’abitazione di Hanks/Donovan: in poche, veloci inquadrature il film diventa un incubo alla Fritz Lang: il terrore, l’innocenza e la persecuzione di una massa che perde tratti umani. La “furia” umana non ha volto, è una presenza maligna ed invisibile nutrita dalla paura.

La terza scena, in cui Spielberg cristallizza un’idea di cinema totale, è la caduta dell’aereo di Powers. Una scena costruita con un montaggio serrato, primi piani avanguardistici (un ricordo di Kubrick?), e un’angoscia che cresce ad ogni singola inquadratura (il quadro dei comandi, il tasto che non risponde più, la prospettiva attraverso il paracadute). Pochi minuti di emozione assoluta ottenuta attraverso una vertigine di immagini.
Infine, quarta scena memorabile è la presentazione di Berlino: una città grigia, disperata, visibilmente ricostruita. Spielberg osserva Berlino attraverso il ricordo e l’immaginazione; ciò che vediamo è un’atmosfera, un sentimento della città. Cinema spirituale, rappresentazione dell’anima delle cose.
Questi quattro momenti ci consegnano uno Spielberg che è “il cinema” stesso. Il resto del film, tecnicamente ineccepibile e ideologicamente corretto, non è che una serie di lunghissimi, dimenticabili momenti di raccordo.

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