I redattori dei Cahiers, dopo la proiezione di Youth, hanno definito Sorrentino “Il peggior regista del mondo”. Una provocazione estrema che non va presa alla lettera, ma va intesa come “frusta” (nel senso della famosa “Frusta letteraria” del settecento); in fondo la critica ha anche il dovere, quando necessario, di smitizzare l’autore e la sua aureola. Youth è un film freddo, che tende a modelli viscontiani riattualizzandoli con tocchi ruffiani alla Anderson; è l’opera meno riuscita di Sorrentino, la più insincera, un vero compendio dei vizi dell’autore partenopeo, ma è anche profondamente anticinematografica: la sua natura è quella dell’aforismario illustrato.
E’ un film che non esisterebbe senza la parola: una parola didattica, sentenziosa, incalzante; un discorso che si fa continuamente morale, rivelatorio, Scrittura. L’immagine boccheggia e ansima, sopraffatta da tanto parlare: è raffigurazione della lectio, illustrazione panoramica di un labirinto di Verità assolute; non è mai autonoma e non vive di se stessa. Youth è incapace di trasformare la propria filosofia in visione pura ed emozione, esattamente come è incapace di trasformare le sue figurette in uomini.
La struttura del film, estremamente frammentaria, è quella di un monumento già in pezzi e ridotto a reperti museali, simboli (le terme, l’hotel, la sala da pranzo, i volti contorti da espressioni significanti). Tutto è già fermo-immagine, momento illuminante. Il virtuosismo tecnico di Sorrentino è riconoscibile e segue uno schema reiterativo di cui è facile individuare le tappe: dalla musica intra/extra diegetica, ai dolly a volo che aprono ineffabili onirismi, alle apparizioni magiche (la giraffa del film precedente diviene qui un tibetano levitante). La sensazione è che Sorrentino sia un abilissimo videoclipparo, un talento dell’epifania visiva a breve termine. Ma Caine e Keitel, personaggi-emblema, assieme alla varia umanità che costella il film, non sono mai percorsi da vita vera: tutto è parabola.
Resta l’impressione che Youth sia il remake intellettualizzato, fintamente checoviano, del più modesto, imbranato, umanissimo Land Ho, altra storia di una coppia senile e grande successo statunitense dello scorso anno.