Non ho la pretesa di offrire recensioni in questo sito, ma solo frammenti, lampi di riflessioni e ancor più, di emozioni. Da tempo rifletto sull’inutilità di gran parte della critica contemporanea (sempre più sterile, sempre più narcisistica) e nel caso di Mad Max:Fury Road, appare evidente l’impossibilità di chiudere un film del genere nelle tipiche recensioni “tranquillizzanti”: colonnine pulite, ordinate, il cui scopo è dare al recensore un senso di controllo, e offrire una chiave di lettura certa.
Nel caso di Mad Max la potenza del film è tale che premerà da ogni parte per far esplodere la prigione del testo. Immergersi nel film significa sottoporsi all’esperimento mostrato da Chris Marker in La Jetée: entriamo, con gli occhi e con la memoria, in un viaggio temporale che si fa momento presente; un mondo in cui riecheggia il cinema tutto, a partire dall’illusionismo originario. Ogni immagine ha un carico di ricordi visivi ed immaginari che va ad aggiungersi alla sua complessità funambolica: i paesaggi splendono soprattutto di luce Fordiana (nei campi lunghi, nelle figure stagliate sulle rocce, nelle inquadrature filologicamente riprodotte). Mad Max è un western in cui brillano, in vortici di fuoco, anime perdute di un inferno dantesco.
Eppure, i volti recano i segni di un espressionismo alla Caligari, e la Cittadella reinterpreta l’umanità meccanica e le scenografie di Metropolis di Fritz Lang: il regista George Miller trasfigura la visione proprio quando crediamo di carpirne l’origine.
L’intermittenza di creature freak (nell’accezione di Tod Browning) rafforza l’attacco destabilizzante allo spettatore. E tutto l’universo steampunk di motori, armi, arti e visi potenziati dall’acciaio, si muove nell’ambito di un’azione parossistica eppure meticolosamente controllata: l’effetto è quello delirante dell’animazione di Chuck Jones.
Gli spazi di Mad Max sono difatti quelli desertici di Road Runner e Wile E. Coyote, dove i corpi sfidano la gravità, le armi sono folli quanto quelle della ACME, nessun dialogo turba i deserti, e una capacità sovrumana di sopravvivenza sfida le leggi della morte. Non solo Chuck Jones, ma anche Frank Tashlin: che torna nell’ossessione per la donna (si vedano le fattrici), per il corpo femminile, idealizzato e cartoonizzato.
E ancora, sequenze notturne che emergono dal buio del cinema muto: un bianco e nero virato in azzurro, una notte che sa di carretti fantasma di Sjostrom, o di set disperati alla von Sternberg (The last command). Impossibile enumerare tutto il cinema che vibra in Mad Max, che, al di là dell’essere un puro prodotto della memoria cinematografica, è un film vivo che reinventa continuamente se stesso e il genere.
Dall’inizio alla fine, Mad Max: Fury Road è un film creato da un dio del tempo e dello spazio. Gli occhi non bastano per il suo cinema.
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