SHE WAS LIKE A WILD CHRYSANTHEMUM di Kinoshita Keisuke (1955)

L’amore di Kinoshita per il cinema, il suo sentimento nostalgico e umanista e l’inclinazione a rivelare la bellezza del mondo, anche nei suoi aspetti più umili e naturali, lo conducono alla realizzazione di She was like a wild chrysanthemum, tra le sue opere più belle, fragili ed evanescenti. L’intero film è una passeggiata fantasmatica nel passato e nel cuore umano, che trasfigura una dolorosa storia d’amore giovanile nel rimpianto e in una poetica accettazione del destino.
Ormai anziano, Masao torna alla terra natale, attraversando su una semplice barca i paesaggi del passato: rivede le coste, i campi, la vecchia casa abbandonata e ritenuta dagli abitanti del villaggio “una casa posseduta”. I ricordi agitano la sua mente, dagli occhi spuntano lacrime. Ryū Chishū è l’interprete miracoloso di un personaggio che non eccede mai nell’espressione dei propri sentimenti: dignitoso, composto, lascia intuire una sofferenza muta attraverso la postura appena curva e un volto intensamente segnato dalla tristezza. È impossibile restare indifferenti di fronte ai primi piani del suo viso rigato dal pianto. Masao ha preso la forma del dolore che lo ha accompagnato per tutta la vita, diventando il corpo dell’amore.

Ci penso ogni volta che arriva l’autunno. È qualcosa che non potrò mai dimenticare. Sono passati più di 60 anni… Mi sono rimasti solo i sogni del mio passato. Sei stato l’unico amore della mia vita, vivrai per sempre nel mio cuore.”
Attraversando il fiume luccicante di sole, nell’aria dolce di un autunno che sembra volerlo confortare e offrirgli un rifugio sospeso nel tempo, Masao ripercorre i propri ricordi sino a renderli vivi e presenti, sonori e visivi. L’uomo rivede se stesso appena quindicenne, accompagnato dalla gentile e delicata Tamiko, la cugina diciassettenne con la quale è cresciuto. Un mascherino bianco ovale, vera e propria aura spirituale che incornicia l’immagine, è l’espediente tecnico di cui Kinoshita si serve per fare del suo racconto un viaggio nella memoria e nel sogno. Il ricordo si circonda di un candore intangibile, il passato si fa allo stesso tempo distanza, luce, visione ultraterrena. Come un cantastorie, Masao traduce in versi poetici la storia triste dei due innamorati, sullo sfondo di un Giappone rurale – gentile di fiori e silenzi – ma irrigidito in una mentalità severa e feudale.

Attraverso il mascherino e la narrazione lirica ma asciutta di Masao, la storia d’amore assume i contorni di un racconto popolare: una storia di innocenza e crudeltà, che vede i due giovani divisi dalle malevole chiacchiere del vicinato, dalla gelosia di una cognata, e dalla mentalità retriva di una madre amorevole ma incapace di concedere la sua approvazione alla relazione. Tamiko non solo è più grande di Masao, ma anche di grado sociale inferiore; il suo destino è la sottomissione.
Per impedire che il rapporto possa continuare, il ragazzo viene inviato in una scuola lontana, mentre Tamiko è costretta ad accettare un matrimonio combinato, utile per l’economia familiare.
La separazione causa in entrambi un’infinita sofferenza, espressa attraverso il pianto e il silenzio. Kinoshita inserisce nel racconto immagini naturali (meravigliosamente fotografate da Kusuda Hiroshi): le colline immote, i cieli sereni, mentre carrelli attraversano i campi fioriti, accarezzati dal vento. Ogni filo d’erba, ogni corolla curvata sembra condividere il destino di accettazione e sofferenza dei ragazzi, fiori a loro volta: se Tamiko è, nelle parole di Masao, un crisantemo selvaggio, a sua volta il ragazzo viene da lei paragonato a una campanula: “Non mi ero resa conto che le campanule fossero così belle.”

La colonna sonora di Kinoshita Chūji (fratello di Keisuke e suo stretto collaboratore) accresce, con la sua malinconia, l’atmosfera elegiaca di resa: i due giovani non si ribellano ma si piegano alle decisioni e al sarcasmo della comunità. Rimasti soli, sfioriranno giorno dopo giorno, privati di quella felicità data solamente dall’essere vicini, trafitti dalla bellezza della luce. Quella di Masao e Tamiko è la storia di un amore tanto innocente quanto istintivo: i due ragazzi vivono l’uno dell’altra come il mattino gode della rugiada; la loro attrazione è una necessità, un bisogno naturale di presenza, di voci, di sfioramenti.
Masao, dal suo dormitorio lontano, scrive una lettera a Tamiko: “stare con te era come essere su una nuvola assieme a Dio”. In queste parole, l’essenza di un sentimento totalizzante e vitale, che vede l’amore come la vita stessa, proiettata nell’ immortalità. Un sentire poetico che ricorda i versi di Emily Dickinson, secondo la quale l’anima cerca la sua compagnia, senza la quale non può vivere. Per entrambi, l’allonanamento è un gesto contro natura che si traduce nella morte: dello spirito e del corpo.

Kinoshita filma con tutta la delicatezza possibile, ma anche con una sensibilità estrema nei confronti di un romaticismo struggente ma quieto, spiritualizzando il sentimento attraverso il mascherino bianco, ritagliando al suo interno geometrie e split-screen dati da oggetti, arredi o colonne: l’incubo della separazione si staglia nelle inquadrature. Le carrellate, i frequenti piani sequenza e i silenzi ci ricordano che tutto scorre e tutto ha una fine, ma l’universo accoglie il pianto e l’amore, conservandoli nell’eternità.
Sulla tua tomba tutto è silenzio, ora solo cantano i grilli”

OZU YASUJIRŌ: I SUOI FILM CI PARLANO ANCORA

Voglio ritrarre il fiore di loto nel fango”
Ozu Yasujirō

[Appunti sparsi in occasione del compleanno di Ozu: 12 dicembre 1903 – 12 dicembre 1963]
Scrive un utente in un commento su YouTube: “I film di Ozu mi fanno desiderare di essere più gentile con gli altri”. È vero. È il primo effetto che fanno. Ogni suo film è testimonianza del suo amore per la vita e per gli esseri umani: guardarli per la prima volta significa scoprire un universo vibrante di puro coinvolgimento sensoriale e spirituale.
È un cinema attuale: lo spettatore si rende immediatamente conto di non trovarsi di fronte a un oggetto filmico da studiare per il suo valore storico o culturale; la visione non ci pone a confronto con polverosi reperti, ma con oggetti vivi e perfettamente aderenti alla contemporaneità, proprio perché focalizzati sugli effetti del vivere.

Questi “effetti del vivere” affiorano nei tre contesti d’elezione del cinema di Ozu, che sono, in realtà, i tre nuclei basilari della società giapponese: la famiglia, la scuola e il luogo di lavoro. È all’interno di queste cellule che Ozu riesce a isolare “tutto ciò che è essenziale della vita umana”, come disse Aki Kaurismaki. La circostanza contingente, la storia raccontata, vengono trascese in un più ampio reticolo di percezioni e sensibilità, in cui ciascuno di noi può riconoscersi.

Grazie all’uso tutto personale che Ozu fa della macchina da presa, dei propri attori, così come degli spazi e degli oggetti, del colore (o assenza di esso), percepiamo le emozioni dei personaggi; ne cogliamo lo stato d’animo in fieri, i sussulti interiori, con tutta la risonanza che hanno dentro di noi. Questa comprensione tra spettatore e personaggio è ancora più miracolosa se si pensa che il punto di vista del racconto non è mai soggettivo.
Gli esseri umani vengono osservati senza invadenza (ne è prova il fatto che Ozu opti per il più pudico “mezzo primo piano” rispetto al primo piano). La macchina da presa si avvicina o si allontana scegliendo sempre la giusta distanza dalla quale ascoltare il suono dei pensieri. Talvolta l’osservazione è condotta in campo lungo, di cui Ozu scopre la forza drammatica; altre volte il personaggio è guardato da vicino, ma di spalle: non è detto, ci fa capire Ozu, che il viso sia sempre rivelatore. Un corpo incurvato può parlarci di un peso, di un’angoscia che una inquadratura frontale non sa esprimere.

Frequenti, nel cinema di Ozu, le immagini dedicate alle “donne che pensano”: figure femminili di grande forza intima e segreta, il cui corpo e sguardo sono completamente assorti nell’atto del pensare. L’osservazione di Ozu non è mai piatta o didascalica, ma conserva intatti l’enigma dei pensieri e il mistero della sensibilità; quello che accade nella mente delle sue protagoniste resta talora opaco e impenetrabile, ma la sofferenza espressa dall’inquadratura è tangibile e raggiunge i sensi dello spettatore. Nel cinema di Ozu gli esseri umani sono parte di un tutto: elementi tra gli altri, cose tra le cose; presenze tra oggetti inanimati o piccoli animali domestici. Spesso ricorrono, ad esempio, immagini di uccellini in gabbia: i protagonisti dei suoi film sono non di rado come queste piccole creature, bloccati in uno spazio e costretti dalla società, o dalla famiglia, a reprimere il desiderio di volo.

La vita non è una delusione?” Chiede Kyoko, la sorella minore, a Noriko in Viaggio a Tokyo. “Sì, una vera delusione”, risponde sorridendo Noriko. I (mezzi) primi piani che Ozu dedica alle due attrici in questa scena sono pieni di grazia e di luce. Il regista coglie qualcosa di unico, un sentimento indefinibile e sospeso tra la dolcezza del sorriso della Hara e la semplice evidenza della sua risposta. In fondo ci chiediamo: può essere davvero così triste la vita, se esiste un sorriso del genere? Le sfumature sprigionate dalla scena sono come una lieve ebbrezza. Ozu trascende la semplicità del momento quotidiano per consegnarci intatta la luce dei sentimenti umani e il mistero di un tempo interiore, un presente che pare stendersi sull’intera esistenza.

La malinconia del vivere è presente in ogni inquadratura: il lavoro di ogni essere umano è accettare la propria transitorietà e i mutamenti della vita, all’interno di quel “tutto” che compone l’universo.
Ed è significativo che sentimenti ed emozioni non ci siano offerti in una lettura chiara. Quando osserviamo i suoi personaggi, mentre piegano il capo o guardano intensamente verso di noi, c’è sempre il senso d’una vaghezza, di uno stato d’animo incerto e quindi dai contorni indefiniti. Allo stesso tempo, Ozu lascia ai suoi spettatori un indizio, un elemento che possa informarci: il modo in cui il personaggio porta alla bocca una tazza di tè, o si tormenta i guanti, o cammina (spesso vediamo solo i piedi); persino il modo in cui un fiammifero viene strofinato diventa significante: è un gesto deciso? O il fiammifero viene strofinato una, due volte, rivelando turbamento o emozione? E’ attraverso questi segnali che i protagonisti entrano in noi, e condividono con noi ciò che provano.

Ogni visione (nuova o ripetuta) dei suoi film ci permette l’accesso in un mondo la cui bellezza, il paesaggio esteriore/interiore, l’amore – per i personaggi e tra i personaggi – diventano un vissuto stupefacente. Quei tipici “sguardi in macchina” voluti da Ozu per “far entrare” lo spettatore nello spazio di un dialogo, rappresentano momenti di intimità talmente intensi da risultare indimenticabili: quando mai un personaggio ci ha guardato così? Com’è possibile che Ozu instauri una conversazione proprio con noi, in forme così personali e profonde? Queste domande sorgono continuamente di fronte ai suoi film, e siamo grati della sua presenza, di un discorso pieno di cura nei nostri confronti. I suoi film sono vivi e ci parlano ancora.

HIT AND RUN (1966) di NARUSE MIKIO

Omaggio a Naruse Mikio
Meno conosciuto di Ozu, Naruse Mikio (1905 – 1969) fu un regista di donne osservate con sensibilità estrema, dai sentimenti forti e veri, in lotta contro una società rigida e un destino spesso tempestoso. Il suo cinema nacque all’interno della grande tradizione della classicità giapponese, ma negli ultimi anni della sua lunga carriera (che comprende ben 89 film) il regista si rivelò fortemente attratto dalle nuove tendenze del cinema internazionale. Tra le sue opere più sorprendenti, HIT AND RUN (Hikinige, 1966) spesso liquidato come prova minore, è un thriller modernissimo e stupefacente, un revenge movie crudele e sensibile, un laboratorio di futuro. Il film si apre su Kuniko, vedova e povera, la cui difficile esistenza è illuminata dalla presenza del piccolo Takeshi, il figlio di cinque anni. Parallelamente, ci viene presentata la ricca e viziata Kinuko, moglie irresponsabile e immatura del dirigente della Yamano Motors, mentre sfreccia con la sua lussuosa auto sportiva in compagnia di un giovane amante. Distratta dall’uomo, Kinuko travolge Takeshi e fugge senza prestare soccorso, lasciando morire il bambino. Disperata per la perdita del figlio e desiderosa di vendetta, Kuniko decide di infiltrarsi come cameriera nella villa dove la donna abita con la famiglia.

Questa invasione dello “spazio intangibile e separato” dei ricchi – lo spazio irrazionale del privilegio – anticipa di decenni i temi e l’immaginario di Parasite di Bong Joon-ho (2019). Naruse sceglie di filmare lo scontro di due realtà aliene in un bianco e nero di ghiaccio, tagliente e sovraesposto. Il film ha un’audacia avanguardistica, a partire dalle scene “futuriste” della motocicletta in corsa, anticipazione dell’ebbra velocità dell’auto di Kinuko, fino alla sperimentazione allucinata delle sequenze oniriche. A spezzare il flusso del racconto troviamo tante inquadrature e sequenze di auto sfreccianti: indizi di una velocità che va di pari passo con la disumanizzazione della società. Quello di Naruse, sessantatreenne e malato di cancro, è il desiderio di un cinema puro, emblema del cambiamento.

L’amore del regista per Hitchcock è grande: non solo nella vocazione sperimentale di Hit and Run, ma anche nelle figure del doppio, nel tema della colpa, nella vertigine che fa impallidire i suoi personaggi. Si intravede, inoltre, un fantasma di nouvelle vague in trasparenza: cinema di luce e ombra, di proiezioni dell’inconscio, di flashback intessuti nella struttura narrativa con rara perfezione. I poveri si agitano come insetti, i ricchi sono cinici e distratti: un mondo di ferocia e sofferenza che Naruse asciuga col bianco e nero più netto e grafico, e con un montaggio rapido ma elegante, che lima le asprezze della natura umana. La sua innata delicatezza gli impone di contenere la tragedia per non spettacolarizzarla; con Hit and Run Naruse si conferma un grande umanista, sensibile, per istinto, alla complessità delle cose, e rispettoso dei sentimenti umani.

FINO ALL’ULTIMO RESPIRO (À bout de souffle, 1960) di Jean-Luc Godard

[tributo a Jean-Luc Godard]

Bisognerebbe avvicinarsi a Fino all’ultimo respiro con la mente completamente sgombra, trasformando il pensiero in un foglio bianco, ignorando i facili schematismi delle “storie del cinema” che contraddicono lo spirito libero del film e lo privano del suo fascino sregolato e vibrante.
L’approccio banalmente didascalico difatti prevede che Fino all’ultimo respiro venga descritto come la chiave di volta della nouvelle vague: un oggetto filmico di rottura rispetto alle convenzioni stilistiche sedimentate nei decenni precedenti, un cinema in cui prendeva vita la rivoluzione estetica portata avanti dal giovane Andrè Bazin, il principale teorico della nouvelle vague.

Bazin rifiutava il concetto di montaggio come “specifico” filmico e auspicava invece l’ingresso di un nuovo senso di realtà nel cinema, una realtà non frammentata ma colta nella sua unità di tempo e di luogo. Per i registi e gli ideologhi della nouvelle vague, in linea con gli insegnamenti di Bazin, gran parte delle strutture classiche del cinema americano (ma anche di certo accademismo francese) andavano superate in nome di un maggior respiro di verità; un traguardo da raggiungere soprattutto tramite l’uso della profondità di campo (che non costringe lo spettatore ad una scelta selettiva, ma lo pone di fronte ad una realtà complessa, cui può partecipare attivamente) e il rifiuto del montaggio, colpevole di sottrarre ambiguità e complessità interpretativa agli eventi, ponendo lo spettatore di fronte ad un percorso obbligato.
L’approccio storicistico tradizionale quindi carica Fino all’ultimo respiro di una serie di teorizzazioni estetiche e lo contestualizza in un arco evolutivo, ma noi riteniamo che quest’ottica, sebbene “corretta” sia rigida e limitante.

Fino all’ultimo respiro è grandissimo cinema e non si può semplicemente ridurre ad una summa di teorie o una reazione a stili superati. Godard stesso rifiutava di essere categorizzato; tra i registi più anarchici e disobbedienti, sfuggiva a qualsiasi definizione e dichiarava fieramente di non avere una visione precisa di ciò che volesse fare, ma di costruirla via via nel suo cinema coraggioso, non privo di tormentate incertezze.
Godard somiglia molto ai suoi personaggi: inquieto, incisivo, talora irritante, nervoso, ambiguo. Grandissimo innovatore in virtù di una personalità ribelle ed indomita; anticonvenzionale al punto da mescolare, nei suoi film, citazioni colte, filosofia, estetica, canzonette, cultura popolare. Fino all’ultimo respiro è cinema in continua trasformazione, estremamente vivo e contraddittorio, che catturava il senso di ribellione dell’epoca ma era frutto di uno sguardo sulla vita e sull’arte del tutto unico e personale.

A differenza di quanto teorizzato da Bazin (che altri registi, tra cui Rohmer, seguirono alla lettera), Fino all’ultimo respiro non respinge il montaggio come linguaggio, ma ne fa un uso estremo e personale: Godard scelse di operare tagli all’interno di una continuità con effetti sussultori, non narrativi o descrittivi. Questa tecnica che gli americani denominarono “jump cuts” nacque da esigenze pratiche, prima che politiche: Godard si ritrovò con 30 minuti in più di girato, ma invece di tagliare intere scene o sequenze, preferì tagliare la scena al suo interno (con squilibri logici), conferendo al film uno stile nervoso imitatissimo tanto dai cineasti colti quanto dai registi d’azione. Per questo motivo Fino all’ultimo respiro è una scheggia di cinema futuro.

Ma vanno chiarite anche le posizioni del film e di Godard nei confronti del passato: se parte della nouvelle vague si dimostrava ostile a tanto cinema americano, per Godard Hollywood rimaneva un oggetto in parte mitico: Fino all’ultimo respiro contiene tutto l’amore di Godard per il cinema di genere americano, in particolare per il noir. Il personaggio di Belmondo è l’evoluzione ironica – esistenzialista e ludica al tempo stesso – dei protagonisti chiaroscurali e malinconici dei noir, in particolare del Bogart dei film di Hawks o Delmer Daves; e allo stesso tempo l’interpretazione di Belmondo diviene parte di una continuità cinematografica, perché l’anarchia del suo personaggio, la solitudine, l’amarezza, il rifiuto di qualsiasi modello sociale saranno ripresi da una serie di registi americani – da Scorsese a Bob Rafelson, da Steven Spielberg a Arthur Penn. Ecco allora il Travis Bickle di Taxi Driver (1976), il Clyde di Bonnie e Clyde (1967), o il Bobby Dupea di Cinque pezzi facili (1970).

Godard, come tutti i più grandi registi, coglieva i fermenti del proprio presente e li trasformava in cinema secondo un linguaggio completamente libero, che fu oggetto di ammirazione ma anche di critiche miopi e grandi ostilità; la sua assoluta libertà nei confronti del linguaggio cinematografico non fu “rivoluzionaria” ma si riallacciava allo stile di grandissimi maestri del muto, come Eric Von Stroheim, Flaherty o Murnau, i quali si opposero ad ogni convenzione descrittiva/narrativa e tentarono, con lo spirito dei grandi romanzieri, di realizzare un cinema totale che contenesse la vita nella sua interezza. Per realizzare questo cinema ogni mezzo era lecito: dalla profondità di campo, dalla continuità temporale al montaggio-shock, dallo spazio filmato nella sua complessità al primissimo piano con valore emozionale. Godard non rifiutava niente del cinema, nemmeno le pratiche degli studios, e prova ne è la dedica di Fino all’ultimo respiro alla casa di produzione americana Monogram, dedita soprattutto ai film di genere (commedie, avventura, noir di serie B) di cui Godard ammirava l’intraprendenza e la fattura artigianale.

Fino all’ultimo respiro è dunque un’esperienza di cinema totale, che va goduta nella sua freschezza, nella sua vibrante e appassionata poesia di vita sfuggente ed anarchica. Se Godard immette nel suo film tutto il suo amore per il cinema, in forma di suggestione o citazione (i già ricordati Hawks, Daves, ma anche omaggi al cinema francese, a Chabrol e Jean Pierre Melville), va anche notato come tutto si trasformi secondo la sua sensibilità, tanto da perdere un senso del passato quanto del futuro. Godard cercò di cogliere la realtà, fatta di strade, visi, silenzi, amore elettrico come un’energia che attraversa corpi e lo schermo. Ma più di chiunque Godard capì la profonda irrazionalità che irrompeva nel reale stesso, impossibile la filmare in modo fenomenologico. In Fino all’ultimo respiro i sussulti, il montaggio discontinuo e aritmico, gli improvvisi abissi emozionali sono quelli della vita stessa, che si fa cinema universale e senza tempo.

HONG KONG EXPRESS di Wong Kar-wai

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Vuoto amoroso e distillata disperazione nel caos del quartiere di Chungking. Il “poliziotto 223” (Takeshi Kaneshiro) non si rassegna all’abbandono; la sua vita corre sul filo del telefono – una “voix humaine” che ha perso l’interlocutore. Amei, la sua ragazza, lo ha lasciato: e non bastano dozzine di lattine di ananas per placare la voragine interiore che lo inghiotte. 223 è giovane e ingenuo, quasi un germe estraneo nell’automatismo di notti inquiete e di un fluire di corpi nelle strade, tra crimine, luci al neon, bar dove consumare alcol e solitudine. L’incontro con una sconosciuta (Brigitte Lin) è un “lunghissimo brivido”: il ragazzo non lo sa, ma in quel momento anche vita e morte si confondono, rincorrendosi nei vicoli, tra la folla, là dove la passione esplode e fugge. “C’è una canzone che dice: Il sole che sorge fa finire l’amore. Era esattamente quello che speravo accadesse”.

La macchina da presa scivola e si sposta su nuovi personaggi. Si sofferma sul “poliziotto 663”, tradito dalla sua fidanzata hostess e immerso nella tristezza di un quotidiano vulnerabile e velato di rimpianto. 663 (un magnetico Tony Leung) fa dell’assenza la sua compagna malinconica: ogni giorno, nella sua abitazione, torna a rivivere nella memoria i momenti vissuti con la donna perduta; piange dignitosamente insieme agli oggetti, li consola, li umanizza. Nulla sembra avere più alcun significato se non in relazione alla sua perdita: “Quando un uomo piange basta un fazzoletto. Quando a piangere è una casa, ti tocca fare un sacco di fatica.”
Ma un giorno 663 si accorge di Faye (Faye Wong), la ragazza del fast food che si è innamorata di lui. Faye è uno spirito leggero, dall’allegria folle e un po’ clownesca; i suoi capelli corti di ragazza, i grandi occhi spalancati sul mondo e sull’amore ne fanno un’anima sperduta e giocosa sullo sfondo di una città in corsa. In un bellissima scena in time-lapse, Wong Kar-wai isola e cristallizza il sentimento di Faye per 663: un’adorazione silenziosa mentre intorno tutto scorre.

Non sono mai riuscita a comprendere perchè Wong Kar-wai abbia spesso suscitato critiche, tra cui l’essere troppo “occidentale” ed estetizzante. Wong Kar-wai è un regista di metropoli, ed è chiaro che il suo linguaggio aderisce al suo mondo, in cui i contorni tra le cose – così come tra le culture e le espressioni – perdono nitidezza per farsi mutevoli e veloci. La regia è elettrica, una corsa per afferrare il naturale fluire del caos e della vita, cogliendone l’intima e fragile bellezza. L’accusa di virtuosismo estetico è ancora più ingiustificata: Hong Kong Express è stato girato quasi interamente camera a spalla, e la visione di Wong Kar-wai è esattamente lo specchio del suo sentimento. Il regista mescola suoni e sensazioni, velocità e cromatismi intensi pari a certi sconvolgimenti del cuore. In Hong Kong Express, Wong Kar-wai è il regista dell’amore.

INCONTRO CON OLIVER STONE

stone_young“Proietteremo i vecchi film come fantasmi su un muro.”

Quella di Oliver Stone alla 56a edizione del Pesaro Film Festival non è che un’apparizione fuggevole (il regista è impegnato in una serie di incontri nelle Marche), ma comunque straordinaria. Poter parlare con un artista del suo calibro è un’occasione rara; Stone è una parte importante della storia del cinema del ‘900 e ha continuato, negli anni 2000, a sperimentare, mettendo in discussione se stesso e i propri codici (si veda il sommesso, intimo Snowden, 2016).

E’ il regista che prima di Spielberg ha rivoluzionato il cinema di guerra (a partire da Salvador e Platoon); è l’autore che ha mescolato materiali, generi e stili appropriandosi dei modi aggressivi delle news – per poter esercitare una feroce critica dall’interno – nell’iconoclasta Natural Born Killers; ha ridato forma al biopic trasformandolo in un laboratorio estetico e ideologico, anticipando il cinema spurio di Adam McKay. Ma Stone ha anche dimostrato un innato classicismo (Tra Cielo e Terra) e senso dell’entertainment puro (Ogni maledetta domenica); ha lavorato dentro Hollywood e contro Hollywood, fino a scarnificarsi e disilludersi, per tornare in tempi recenti a un cinema più autentico, spoglio, desideroso di realtà attraverso il documentario.

Nel suo percorso artistico ed esistenziale Stone non ha mai smesso di “inseguire la luce”: e Chasing the Light: Writing, Directing, and Surviving Platoon, Midnight Express, Scarface, Salvador, and the Movie Game è il titolo della sua autobiografia in uscita in questi giorni, edita da La Nave di Teseo.
“L’italiano è una lingua bella e sonora: infatti il mio libro di 320 pagine, nella vostra traduzione, è diventato di 500; però lo hanno intitolato Cercando la luce e non inseguendo. Ma non fa niente, è sempre una questione di luce.”
Il suo spirito di sfida non risparmia nemmeno il covid: Covid sucks, non sappiamo nemmeno cosa sia; è come The Blob, il vecchio film horror; ma è anche come trovarsi in un film di Lars Von Trier, dove tutti si muovono sentendosi minacciati e aleggia la morte; ma hey, tutti moriremo prima o poi, quindi vediamo di farci l’abitudine.”

Più amare, invece, le sue riflessioni sullo stato attuale del cinema: “In questo momento il movie business è morto – dead, dead, dead – ma possiamo sempre proiettare i vecchi film, come fantasmi su un muro. E qualche volta anche film nuovi, ce n’è qualcuno davvero buono: mi è piaciuto Joker, ma anche Uncut Gems e The Irishman. E’ sempre più difficile lavorare, per via delle corporazioni, del marketing…”

Chasing the light è un libro scritto dalla necessità di tornare sul passato per ripensarlo e soprattutto rivivere il sogno. “Non è forse il miglior momento per far uscire un libro, ma avevo bisogno di essere sincero con me stesso, esattamente come cerco di realizzare film onesti. Dovevo fermarmi, tornare indietro e ripensare la mia vita più consapevolmente. I primi quarant’anni sono stati importanti, fondativi: la giovinezza è il momento in cui si costituisce il sé. Da ragazzo problematico, dalla vita difficile, turbato prima dalle esperienze familiari e poi dal Vietnam, sono diventato un uomo che ha potuto concretizzare il suo sogno di fare cinema; in un solo anno, il 1987, ho realizzato ben due film di guerra, Salvador e Platoon.

Le parole più appassionate le riserva alla sua fede nel cinema come espressione di protesta: Il cinema è una forma d’arte e ha il dovere di esprimere un dissenso – politico, sociale, culturale; di protestare contro una realtà che non sente propria. Non posso fare a meno di manifestare la mia aperta critica nei confronti di una vita contemporanea così segnata dal conformismo. Sono sempre stato un ribelle, ho sempre lottato, lottato, lottato… In questo momento il governo del mio paese è molto duro, nazionalista, non vuole essere criticato; si trova in una posizione molto pericolosa. Io ho sempre espresso le mie idee senza compromessi; ho sempre sostenuto che la guerra nel Vietnam fosse una guerra stupida, e ho cercato di dirlo attraverso il cinema. Ma gli Stati Uniti hanno successivamente ingaggiato altre guerre, quindi non è servito. Si sono ripetuti gli errori del passato, ma io continuo a pensare che quel racconto andasse fatto.
Recentemente, nel 2016, ho realizzato Snowden, un’opera cui sono molto legato e che ritengo estremamente importante: ho cercato di esporre un caso reale, verità che molte persone non vogliono conoscere. Il cinema che vorrei vedere è questo: un cinema della realtà, mentre adesso siamo oberati dal fantasy: il pubblico viene rassicurato, si sente al sicuro. E’ un cinema che nasconde la verità di un’America la cui situazione è estremamente precaria.”

CAM: perdere se stesse, tra horror e tecnologia. La sceneggiatura di Isa Mazzei

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“Deepfake è essenzialmente un software che puoi usare per mettere il viso di chiunque sul corpo di un altro. Ad esempio, puoi creare porno di qualcuno che non ha mai fatto il porno, chiunque tu voglia, una celebrità o altro. Ed è terrificante perché sembra assolutamente reale. Questa è l’era in cui viviamo. È qui che la nostra tecnologia ci ha portato; quindi, in un certo senso, questa è Lola. Lola è qualcosa che ora, in realtà, esiste già; dobbiamo capire come affrontarla.” (fonte: Papermag)

Isa Mazzei, 27 anni, ex camgirl, scrittrice e sceneggiatrice, è tra le più interessanti artiste emergenti nel panorama culturale americano. Il suo approccio nuovo, anti-intellettualistico al tema delle sex workers l’ha condotta a scegliere il filtro del cinema di genere con un risultato dirompente; CAM è un film “femminista” eppure è un’opera completamente autonoma, un sistema indipendente ed esteticamente affascinante; non si tratta di un film asservito al proprio impegno civile, bensì di cinema esplosivo, dal linguaggio moderno e consapevole, in grado di assorbire al proprio interno le tecniche e forme del comunicare contemporaneo; un piccolo gioiello linguistico e sociologico che avrebbe incantato Marshall McLuhan.

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Isa Mazzei, con l’anticonformismo e la libertà tipici di tanti giovani artisti americani, prende il suo passato e ne fa esperienza artistica, horror con un sottotesto che rivoluziona la cultura del sesso. In genere la camgirl o lavoratrice del sesso è quel tipo di personaggio cui il cinema dedica pochi passaggi esploitativi (degradandola a vittima/soggetto marginale/rifiuto sociale, o, al contrario, l’ingenua dal cuore d’oro); Cam invece ci presenta una figura femminile ambiziosa, multidimensionale, un essere umano con cui simpatizzare ed identificarsi. Nel nostro presente social, tutti possediamo un io virtuale costruito con cura: il destino della protagonista potrebbe essere il nostro. La duplicazione di profili, il furto di identità sono crimini digitali enormemente diffusi.

La Mazzei ha raccontato in varie interviste di come si sia vista “rubare” il proprio lavoro da un insieme di siti (Youporn ecc.) dove i suoi shows venivano piratati e ricaricati senza il suo consenso. “Tutta la mia creatività, la mia passione, la mia carriera venivano spezzate in brevi sequenze prive delle mie informazioni personali e intitolate “Bruna bollente” o simili. Vedere quel corpo su Pornhub e avere la sensazione che non mi appartenesse più, che la vita e il volto mi fossero stati rubati fu uno shock; un’esperienza spersonalizzante che ho cercato di trasferire in Cam.” (fonte: Papermag)

La forza innovatrice di Cam risiede nella volontà di presentare il lavoro sessuale come talento, espressione di passione personale. La protagonista Alice, come altre camgirls (la Mazzei ha creato da sola le 99 “stanze” che appaiono nel film) mette insieme l’estro della perfomer, la sottiglienza di una psicologa e la lungimiranza di un’antropologa. Il suo show è un ricettacolo di arti, finzioni, analisi ma anche porzioni di sé offerte con tutta la generosità possibile (“Non fingo mai i miei orgasmi”, dichiara Alice fieramente). C’è una una dedizione professionale estrema che rende Alice luminosa, necessaria. La Mazzei non solo mette a nudo l’ipocrisia di chi fruisce delle sex workers senza riconoscerne la dignità, ma restitusce alla sua camgirl profondità e intelligenza, facendone un’eroina che attraversa un’odissea personale per tornare al suo desiderio primario, più “esperta” e diversa. CAM è il racconto, fulgido e folle, di una libertà ritrovata.