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In Piccole Donne la Gerwig ha mantenuto, delle sue origini nel cinema indipendente assieme a Baumbach, il desiderio di spezzare il racconto, fissarlo in una narrazione frammentaria e proprio per questo pià simile alla vita – una vita fatta non di fluire cronologico, ma di lampi, ricordi, emozioni, slanci musicali, contrappunti verbali. Questo almeno era ciò che accadeva in Frances Ha, e la Gerwig tenta di riprodurre un’impalcatura di vita all’ultimo respiro – perchè in fondo lo stile spezzato rimanda sempre a lui, il grande Godard – ma Piccole Donne è troppo sterile e conservatore perchè basti un montaggio non lineare a svecchiarlo.
Cosa è accaduto alla Gerwig, e cosa è accaduto al cinema indipendente? Sia lei che Baumbach sembrano cercare un ritorno al cinema borghese, alla recitazione enfatica, alla stilizzazione estrema da cui la vita vera, vibrante, resta tagliata fuori.
Ogni scena di Piccole Donne è completamente messa in posa: dalle pieghe degli abiti alla frutta sulla tavola, dalle discese a perdifiato giù per le scale agli innocui litigi tra le sorelle. In un trionfo di mosse, vezzi, innocenza esibita, cesti di dolci portati in grembo e capelli appena messi in piega, ci si domanda dove sia la freschezza moderna di cui parla la regista, dove sia l’attualizzazione, ma ancor più dove sia la verità in un film del genere.
Nel suo scomporre il racconto in un cut-up che si vorrebbe sfrontato e renitente a ogni classicità, la regista finisce col rivelare la sua paura del vuoto: al pubblico non viene dato modo di riflettere nè sull’enigma del tempo, né sui silenzi, né sulle voragini di emozioni, sentimenti o incomunicabilità; la Gerwig taglia e rimonta ma copre il suo racconto accidentato d’un tappeto sonoro e musicale – l’invadente colonna sonora di Desplat – per rendere morbido il tragitto ai suoi spettatori. La dolcezza di Desplat ci accompagna sempre, fodera le asperità, la quiete, le lacune. Un vero horror vacui muove la visione cinematografica della Gerwig, che ci ottunde di pienezze pittoriche e sonore.
Le inquadrature, spesso abilmente ricalcate su dipinti celebri (es. di Dante Gabriele Rossetti o John Everett Millais) si ammantano d’una artisticità citazionistica; ci troviamo davanti a una soave riverniciatura fotografica di estetiche pittoriche accessibili e note, illuminate in toni caldi.
Le ragazze sorridono e si agitano: le vediamo recitare, le vediamo consegnare la battuta mentre tutt’intorno la macchina da presa della Gerwig rotea, danza, s’innamora di trine e tendaggi, offrendo il più trito e lezioso stereotipo di “femminile”.
Jo, alter ego della regista, è colta dall’estro creativo in piena notte e scrive, mescola fogli, li sparpaglia a terra in un tripudio di candele; scrive supina, sdraiata, accovacciata sulla poltrona, penna in bocca e capelli scarmigliati. Tanta falsità è disprezzabile, soprattutto perchè incornicia l’espirazione femminile in un quadro di graziosità che non perde compostezza nemmeno nello scuotimento dell’ispirazione. Non si ha mai la sensazione che l’arte sia una sofferenza, capace di abbruttire, segnare il viso, turbare i rapporti. La preoccupazione per l’apparenza turba l’estro della pur talentuosa Gerwig, che appare ormai fagocitata dai modi più tristi del cinema americano dei padri.
Amo l’acronia Amo Godard Adoro anche lei perché ravviva sempre le mie consunte fiammelle…. ma Lei ha ragione, come al solito, l’arte, anche la più banalocchia, è sempre un parto e i parti non sono mai balli di corte o bignè con la crema l’odore della sofferenza è sempre il più eccitante e sono rimasti in pochi ad offrirlo Grazie
Il 11/02/20, Frammenti di cinema – di Marcella
Questo film a volte mi è parso un tantino veloce