****
Con The Rider, Chloé Zhao compie uno di quei movimenti primigeni di cui è capace il cinema: il ritorno alla vita attraverso lo sguardo della macchina da presa. The Rider, biografia del giovane cowboy Brady Jandreau (che nel film interpreta se stesso, assieme alla propria famiglia) è ricordo che si rifà vivo, presente, diviene storia con una precisa cronologia interna, ma allo stesso tempo sospesa tra le storie e nel tempo. Quella della Zhao è una messa in scena in cui verità e finzione si confondono, non ai fini di una manipolazione del reale quanto, piuttosto, di una trasfigurazione di esso, per ottenerne la sua versione più pura.
In The Rider, la figura di Brady – un Lakota Sioux della riserva di Pine Ridge – assurge a personaggio del Mito americano, antieroe ossimorico (in quanto nativo e cowboy) del genere western di cui la Zhao conosce profondamente le coordinate: western come eterno viaggio, sradicamento, ricerca di una identità all’interno di un paesaggio infinito e inconoscibile.
Il South Dakota di The Rider (precisamente, il parco delle Badlands, già immortalato da Terrence Malick ne La rabbia giovane) viene fotografato in tutta la sua selvaggia vastità, nella sua bellezza oggettiva e distante, nelle notti fredde e rischiarate dalla luna; l’essere umano cerca, all’interno di questo spazio infinitamente percorribile e foriero di morte, una propria eternità, una fusione col dato naturale. I campi lunghi, i tramonti struggenti contengono il senso di una trasformazione che tutto crea e tutto distrugge.
Per Brady, la vita del cowboy è l’unica possibile sotto i cieli del Dakota. Lo sguardo della Zaho sembra annullare la distanza tra il giovane e i suoi cavalli: gli occhi degli animali – dal familiare Gus al selvaggio Apollo – vengono ripresi dalla regista con una sensibilità che ne distilla l’istinto più profondo. Le scene dell’addestramento, concentrate in poche sequenze sintetiche, documentarie eppure stilizzate in uno spaziotempo soggettivo che accoglie la realtà, sono straordinari momenti di cinema, tralucenti di poesia.
E’ incredibile come questa giovane regista nata e cresciuta a Pechino, vissuta negli Stati Uniti solo per pochi anni, sia stata capace di cogliere lo spirito di un luogo e dei suoi abitanti. Il film esplora la comunità cogliendone lo smarrimento di fronte al vuoto stellato, il desiderio sfrenato di vita – colmato dai lampi estatici del rodeo – e la crisi di un machismo eroso dal tempo e dalla tragedia. Lane, il miglior amico di Brady, ridotto in condizioni di grave handicap a seguito di una violenta caduta, è l’emblema della “guerra” che gli esseri umani delle Badlands fanno a se stessi: un veterano di un destino e di una cultura, la vittima di una trasformazione culturale di cui Brady e la sorellina Lilly – un angelo di rara grazia, una Cassandra col dono della visione – sono i commoventi sopravvissuti.
Molto incuriosito, per un amore spontaneo verso qualsiasi “nativo” e per la convinzione che ogni materiale artistico, a maggior ragione un film, debba essere la fusione a caldo (anche a freddo ma ci vogliono vero maestri) di fiction ed elementi reali
Il 13/09/19, Frammenti di cinema – di Marcella
È da un po’ che mi dico che voglio vederlo, ma ho sempre rimandato. Mi sa che mi hai dato lo sprone.
Ciao Marcella! Di questo film ne avevo sentito parlare, leggendo poi la tua recensione, di cui ti faccio tanti complimenti, la curiosità di vederlo mi è cresciuta, purtroppo non ho fatto in tempo a guardarlo nella settimana in cui è uscito… anche perché è durato poco… spero di rivederlo al più presto