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Matteo Rovere si fa carico dell’ingrato compito di liberare il cinema italiano da un canone granitico e asfissiante: Il Primo Re è un colpo di mazza chiodata ai paradigmi dell’intimismo, della famiglia, alle interminabili sedute al tavolo da pranzo (quasi un tavolo operatorio dei sentimenti), alla dissezione dei segreti e bugie che corrompono le relazioni.
Il regista rigetta l’autoanalisi, l’esibita presunzione di un cinema “interiore” e volge la sua attenzione alle superfici: i corpi, il sangue, gli elementi naturali primari e il loro effetto sulla fragile vita umana. L’obiettivo è il ritorno ad un cinema in grado di scavare nel primigenio: attraverso la nuda messa in scena del mito fondativo, Rovere cerca l’immagine primitiva, l’elettricità di pulsioni elementari; e lo fa con l’incoscienza dell’avventuriero, smanioso di ricreare la gloria del genere cercandone le ceneri appassite e infiammandole con ogni mezzo.
Così come Il Primo Re fonda la sua vicenda sul possesso elettivo del “fuoco”, Rovere brucia i tinelli borghesi e pone lo spettatore di fronte al paesaggio scabro, alla lotta dei guerrieri sporchi e avvinghiati, alla pietra che spacca il cranio. La violenza cui assistiamo nel film ha allo stesso tempo valore narrativo e simbolico – è la necessità, espressa in tutto il suo furore selvaggio, di riportare la visione allo stadio arcaico di purezza e semplicità emotiva, nella rappresentazione di sentimento e azione.
Oltre al (necessario) svuotamento contenutistico, il film ambisce ad un linguaggio onesto, non manipolatorio, semanticamente semplice: immagini come “segni” univoci, capaci di lasciare intatta l’evidenza del mito e di rispettare la nostra percezione.
E’ un percorso difficile e non sempre le aspirazioni di Rovere trovano la forma migliore: ad esempio, al film manca il senso della dimensione uomo/natura – il paesaggio è piatto, bidimensionale, nulla a che vedere coi panorami stratificati a più livelli di Valhalla Rising di Refn, l’archetipo cui Rovere fa riferimento; il regista inoltre sembra fallire nella rappresentazione del “movimento”, tanto fisico quanto esperienziale dei personaggi, statici all’interno di uno spazio approssimativo (la foresta, il villaggio) e della propria anima (soggetta a mutamenti arbitrari).
Ma restano le grandi pulsioni forti e silenziose, i muscoli guizzanti, le asce e le spade pronte a calare sui corpi per estrarne le viscere; mentre Daniele Ciprì fotografa tutto sfiorando la trascendenza, immortalando la tragedia umana in una densità atmosferica e luminosa che, da sola, è il segno di una irraggiungibile divinità.
Troppo gibsoniano: https://matavitatau.wordpress.com/2019/02/07/il-primo-re/
Capisco molto bene quella “mancanza di sguardo”, come dici tu, e che io ho preferito considerare una voluta ricerca di semplicità, il bisogno di “lasciar parlare l’immagine”: e a volte sa farla parlare molto bene.
Capisco, e ovviamente non hai torto… sono io che sono più cattivo… io ho trovato difetti seri anche a livello di storytelling…
Sicuramente ci sono, ma prevale l’entusiasmo di fare cinema, svecchiandolo, e mi basta. In genere tendo a vedere più i pregi dei difetti (sono così in tutto) 🙂
Ciao Marcella, ho notato infatti che anche nelle tue precedenti recensioni, hai spiegato molto bene tutti gli aspetti positivi dei films!!!