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Si guarda Un affare di famiglia come talvolta si assiste allo scorrere della propria vita: un avvicendarsi di eventi ora rassicuranti ora traumatici, in un irriducibile flusso naturale. Il film rappresenta l’indefinitezza del presente che è lo stato del vivere: Kore’eda coglie gesti, situazioni, sguardi con un’apparente oggettività, ma è in grado di trattenere, all’interno dell’inquadratura, l’emozione nell’istante stesso in cui essa si manifesta. Il suo è cinema/vita, è il buio e la luce del vivere, condensati in una serie di sequenze brevi, asciutte, capitoli di esistenze mai completamente decifrabili: Kore’eda lascia i suoi personaggi all’interno di un quadrante misterioso dove non esiste una netta separazione tra bene e male: l’unica divisione riconoscibile è quella tra amore e non amore.
La famiglia Shibata, nella sua umile quotidianità, nei piccoli spazi condivisi ed affollati di oggetti e abiti, nel cibo preparato e consumato nell’unità di una cellula coesa, dove ogni individuo è unico ed è parte di un tutto, è espressione di un amore che si manifesta al di là delle leggi – sia umane che di natura. Vi è una profonda, laica religiosità in un legame parentale che non nasce dello stesso sangue: la scia che avvolge i vari membri – ciascuno col proprio dolore, una ferita, una macchia impressa sul passato – è un sentimento salvifico ed istintivo; un riconoscimento di destino comune, un’accoglienza in uno spazio d’amore. Spazio che il regista delimita, con uno studio applicato ad ogni singola inquadratura, interrompendolo attraverso linee verticali: come se il reale fosse scomposto in blocchi, istanti, un presente isolato e per questo impermanente.
Ogni membro ha dell’altro una visione del tutto soggettiva, interna alla propria esperienza: Kore’eda ha la capacità di trasferire sullo schermo questa soggettività, lasciando di ciascun personaggio un puzzle impossibile da completare: creature indefinite, complesse, talora ambigue. Di queste figure cogliamo la purezza: persiste una luce ad animarli persino nei comportamenti più opachi o nelle ombre del passato.
La struggente, infinita bellezza di Un Affare di Famiglia risiede nella sua capacità di rivelare le sfumature dei rapporti umani e di saper liberare l’individuo da una univocità cui viene costretto da uno sguardo “sociale”. La famiglia Shibata è un microcosmo di anime libere: in questo, ricorda molto l’eccentrico nucleo di You can’t take it with you (1938), di Frank Capra. Kore’eda trasforma l’esperienza – transitoria, evanescente – della famiglia Shibata in un “segno” tangibile, non privo di trascendenza, della possibilità dell’anima di uscire dal proprio destino di sofferenza e solitudine. Una solitudine cui si torna cambiati, consapevoli del dono dell’amore e della sua straziante provvisorietà.