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Lucky è uno dei film più belli e semplici mai realizzati sulla morte: guardandolo, vengono in mente i versi di Yeats: Ho udito i vecchi, i vecchissimi, dire:/ « Tutto muta/ E a uno a uno noi scompariamo (…) Tutto ciò che è bello trascorre via/ Come le acque ».
Harry Dean Stanton, corpo e sguardo di Lucky, è l’immagine inesorabile del Tempo: il regista John Carroll Lynch lo inquadra come elemento del paesaggio, come il cactus o la testuggine che attraversa la natura scabra. Lucky, avvizzito, fantasmatico, la pelle del viso aderente al cranio al punto da farne intuire i contorni, si staglia nell’azzurro del cielo del Texas. La sua vita si ripete in una sequenza di gesti ed azioni che si rinnovano ogni giorno alla luce dell’alba; non vi è monotonia ma una quotidiana esperienza, in cui Lucky osserva, tocca, fuma, suona l’armonica con un gusto del vivere che non si affievolisce. Nelle scarne conversazioni con gli abitanti del piccolo centro c’è sempre un elemento di bizzarria, un rivolgersi all’interlocure con curiosità autentica: perchè “peggio del silenzio imbarazzato ci sono soltanto i convenevoli”.
Lucky viene amato per la sua verità: gli anni hanno estratto la radice più autentica della sua umanità. Si intuisce, osservando il suo muto girovagare, il volto attonito e sempre pronto alla scoperta, alla riflessione, a muti colloqui con ciò che lo circonda, quanto egli sia aggrappato alla vita, tanto da accogliere con stupore l’idea della morte. Una morte che, in realtà, si respira in ogni inquadratura e si posa su Lucky con la medesima grazia con cui egli interagisce con tutte le cose.
Una vertigine, una perdita dei sensi lo rendono improvvisamente vulnerabile, esponendolo ad un sentimento inesplorato da anni: la paura. La stessa paura che lo assalì appena tredicenne: Lucky scopre come la giovinezza e la vecchiaia abbiano molti punti in comune. La sua sensibilità è affinata come quella di un ragazzo, la sua età costellata di passaggi e scoperte, di trasformazioni del corpo: con la differenza che, stavolta, il corpo si curva e indebolisce, assecondando la parabola discendente dell’esistenza: “tutto sparirà: tu, io, questa sigaretta, tutto… nel buio, nel vuoto”. Ed è commozione vera nel guardare l’unico, limpido sorriso di un uomo ed un attore che va incontro al suo destino.
Il regista riesce a cogliere un momento di vita autentica, a fermarla nell’immortalità, facendo di Harry/Lucky un unico corpo, una sovrapposizione magica di finzione e verità. Harry Dean Stanton interpreta se stesso che interpreta Lucky in una messa in abisso che è un tuffo in quel “void” sul cui limitare ci affacciamo semplicemente guardando il film. John Carroll Lynch si serve di molti piani fissi, quadri iperrealisti immobili nel tempo, al cui interno la vita si agita irriducibile – la festa messicana, i mariachi, i bar brulicanti di litigi, d’amore. Lucky è un’anima di passaggio, e abbiamo il privilegio di cogliere la trasparenza dello spirito nel suo corpo alla fine.
Ottima analisi di un film che è piaciuto molto anche a me…
forse gli unici aspetti che non ho apprezzato sono alcuni dialoghi un po’ sconclusionati (tipo quello finale al bar) e la scelta di percorrere, in alcuni casi, la facile strada dell’aforisma (come quello da te riportato ““peggio del silenzio imbarazzato ci sono soltanto i convenevoli”)…
per il resto un Harry Dean Stanton monumentale!