DOPPIO AMORE di François Ozon

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Anche con l’Amant Double Ozon si dimostra un regista ostinato, fedele ad un’idea di cinema perseguita dagli inizi della sua carriera con risultati alterni. Ozon è un figlio libero e ribelle della Nouvelle Vague; mantiene saldo il principio della macchina da presa come “penna” con cui scrivere il cinema attraverso immagini disobbedienti, scaturite da una visione personale e dal senso interiore del racconto. Ozon è soprattutto un grande cinefilo e vive la lezione dei suoi registi ispiratori come un amore cui tendere costantemente, una memoria irraggiungibile che tenta di farsi corpo ed immagine. Il suo è sempre cinema-memoria, rielaborazione di un passato talmente innervato nella sua sensibilità da farsi quasi spinta inconscia; per queste ragioni, anche nelle prove meno riuscite, resta sempre un regista interessante.

La riconoscibilissima ombra che avvolge tutta la sua opera è quella hitchcockiana: da sempre, Ozon cerca di far rivivere (anche con un certo gusto necrofilo) inquadrature, sequenze, atmosfere del maestro inglese. In Doppio Amore troviamo la vertigine, il tema del doppio, i primissimi piani, le scale a chiocciola, l’uso di un montaggio soggettivo e “poetico” (se in Psycho si sovrapponevano l’occhio di Marion e lo scarico della doccia, qui si sovrappongono l’occhio di Chloé e la sua vagina). Non manca un dichiarato omaggio a Vertigo attraverso il “sogno” surrealista della protagonista, che in uno stato tra sonno e veglia si abbandona ad un delirio onirico simile a quello di Scottie/James Stewart.

Ozon insegue Hitchcock nell’intento di trasformare le pulsioni in immagini: il regista è mosso principalmente dal desiderio, e all’interno di questa “spinta” passionale trascina suggestioni polanskiane, cronenberghiane ma anche bergmaniane (si vedano i “volti” di Chloé, esplorati in un eterno confronto). Doppio amore è come una pianta rampicante che si inerpica su un cinema passato e lo saccheggia: un film-parassita, per citare la trama stessa del film, che si nutre dei propri autori-ispiratori, riassorbendoli attraverso l’originale e distintivo sguardo ozoniano. Ma stavolta gli equilibri sono fragili, e l’opera non è all’altezza della propria ambizione

Ozon ci regala singole sequenze mirabili: bellissime le sedute iniziali, in cui vediamo Chloé raccontarsi e sdoppiarsi sullo schermo, in una sorta di eterna conversazione con l’altra se stessa, con la duplicità che la abita. Successivamente il regista si perde in un accumulo di suggestioni stilistiche e tematiche, aggregando scene nella costruzione di un universo affascinante quanto labile, in una deriva di erotismo, psicologismi e mutazioni horror. Lo spettatore assiste passivo alle trasformazioni di un film che non riesce a turbare e si blocca narcisisticamente in una mera seduzione estetica: la perversione non si fa mai dramma. Marine Vacht è espressivamente debole e monotona nella sua annoiata fissità, tale da rendercela distante e sgradevole. Jérémie Renier si muove a disagio in un doppio ruolo gravato dai clichè. Nel film compare Jacqueline Bisset, icona del cinema francese relegata al classico ruolo di deus ex machina, come già accadeva a Charlotte Rampling nel decisamente superiore Jeune & Jolie.

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