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Tutti a vedere Elle, tutti a parlare di Elle: persino Paul Verhoeven ne è sorpreso, così come si meraviglia dell’assenza di controversie: “Dovrei fare qualcosa per farmi odiare di nuovo”.
In effetti Elle non ha scatenato indignazione per il suo contenuto morale: semmai più una ammirata perplessità. Il pubblico è rimasto affascinato dal comportamento della Huppert, la cui Michèle, con aristocratica naturalezza, reagisce al proprio stupro sovvertendo ruoli, emozioni, gerarchie. Michèle, secondo la Huppert, è addirittura protagonista di una “favola”; lo stupro innesca in lei un fiorire di desideri, impulsi, un misto di violenza, voyeurismo, coazione a ripetere, ma anche un processo di avvicinamento alla verità: Michèle prende possesso di se stessa, smette di mentire.
La Huppert, attrice meravigliosa e capace di incarnare un mistero la cui oscurità ha mille gradazioni differenti, diviene Michèle, si confonde con lei: il suo istinto conduce il personaggio oltre i confini della sceneggiatura. La Huppert improvvisa, riscrive, condensa un pensiero in un accenno di sorriso, o in uno sguardo enigmatico. Inafferrabile, la sua Michèle sfugge a qualsiasi tentativo di controllo dello spettatore, a qualsiasi interpretazione. In questo, la Huppert e Verhoeven sono identici: nel desiderio di non cadere all’interno di un genere, di una categoria. Il personaggio di Michèle è sfumato, indefinito, eppure di una forza trascinante, e dallo spirito mai passivo: Michèle non è mai una vittima, né quando viene picchiata dal suo strupratore, né quando viene insultata sul lavoro. La sua superiore aderenza a se stessa, la sua fedeltà ai propri desideri finiscono sempre col rovesciare il gioco in suo favore. Allo stesso tempo, Verhoeven gira un film che scivola via da qualunque categorizzazione: non è (solo) un thriller, non è un dramma psicologico né una commedia nera degli equivoci; Elle è un’opera che si muove sinuosa attraverso le sue declinazioni, mantenendo una coerenza ed un’eleganza stilistiche superiori.
In Elle non ho rinvenuto echi di Haneke o Chabrol (come ho letto in qualche recensione) ma una ferma ispirazione hitchockiana: il continuo spostamento degli indizi, il voyeurismo della macchina da presa (che è anche quello dei protagonisti), le figure umane dietro le finestre, gli sguardi carichi di sospetto; ma soprattutto, il desiderio sessuale, le pulsioni/perversioni nascoste in nuclei sociali ammantati di normalità.
Verhoeven è violento, le scene di stupro sono brutali e prive di indulgenze nei confronti degli spettatori quanto della protagonista: Michèle viene aggredita e picchiata, l’attacco coglie lei e noi di sorpresa. Ma la sua reazione farà vacillare lo stupratore, che si ritroverà a dover esplicitare i meccanismi del proprio piacere (“non è così che funziona per me”).
Intanto Michèle si muove nel suo microcosmo relazionale e lavorativo, ma “l’incidente”, lo stupro, sembra allargarsi a macchia d’olio e rivestire ogni relazione di un nuovo colore.
La colonna sonora di Anne Dudley, memore di Bernard Herrmann, precipita ancor di più la nostra esperienza visiva e percettiva in una vertigine disorientante. In quei quartieri eleganti, nelle case osservate dietro gli alti cancelli, esseri umani consumano impulsi incontrollabili. Verhoeven ci spalanca la porta, mentre la Huppert ci sconvolge col suo rapido, arcano sorriso.