JOY di David O. Russell

joyCosa ci fa, tra un sopravvissuto, un redivivo, tra superuomini e supereroi del cinema americano, il film di David O. Russell? In un momento in cui tutto a Hollywood è eccezionale (con l’aspirazione ad infrangere le barriere dei limiti umani, in una celebrazione, che è anche politica, di machismo e superomismo americani), il regista torna all’immensamente piccolo e trascurabile. Torna ad una casa tra tante, dietro ad uno steccato bianco; torna alla provincia, ad un microcosmo di esistenze banali, e punta la sua macchina da presa su una donna. La storia della sua protagonista non ha nulla di epico e immaginifico; anzi, è un materiale prosaico, è un cinema che si immerge nell’ordinarietà. Eppure, da questa vicenda di una giovane imprenditrice ribelle, cui si deve l’invenzione del Miracle Mop (ovvero il mocio casalingo) David O. Russell trae un film pieno di invenzione e suggestioni cinematografiche; mescola stili, materiali, e ritrova una vena onirica e grottesca già presente in opere “divergenti” come I heart Huckabees, ma senza asperità ed eccessi.

In fondo, David O. Russell insegue da anni lo stesso film: c’è una “storia”, nel suo immaginario, che va portata alla luce; e film come The Fighter, Il Lato Positivo, Joy, continuano a raccontarla da differenti prospettive: quasi un cubismo che fa apparire lo stesso materiale d’ispirazione ogni volta in forme differenti. Si tratta della storia universale che vede il singolo nel suo rapporto con la famiglia; e di come il singolo si elevi, nonostante la prigionia familiare (una gabbia sociale di cui però Russell non può fare a meno di subire la dolcezza) per affermare se stesso e riconciliarsi all’interno della sua cellula sociale.

Joy è un film coraggioso per molti motivi: la protagonista, Joy Mangano, è trasfigurata in un personaggio da favola, una sorta di Cenerentola moderna (e non mancano la sorellastra e la matrigna) ma senza il conforto di un riscatto romantico. E’ un film “senza amore”, in cui la ragazza si salva da sé, e solo un pazzo idealista come Russell poteva mettere insieme Jennifer Lawrence e Bradley Cooper senza farli innamorare. Inoltre, Joy è un film che porta alla luce lo strettissimo rapporto, tutto americano, tra vita e televisione: la vita di Joy non è differente dalla soap che sua madre guarda quasi in stato ipnotico, confondendo fantasia e realtà. Joy stessa sogna secondo modelli televisivi. Ed il fallimento, in Joy, è un pessimo commercial.

Allo stesso tempo, Russell ama ogni forma di deviazione che possa intravedere tra le pieghe del suo reale soapizzato, e questo fa di lui un regista non comune: tra le cose più significative del film vi è il rapporto della madre di Joy (una meravigliosa, abbandonata Virginia Madsen) con il suo giovane idraulico di colore, che la salva dall’incantenamento televisivo. Questo momento è puro Douglas Sirk, All That Heaven Allows.
Inoltre, Russell esplora le deviazioni attraverso una particolare composizione spaziale: nelle prime scene, scendiamo, con uno dei suoi tipici, labirintici movimenti di macchina, nel piano sottostante della casa: una discesa che è anche surreale e simbolica. Lì, vediamo l’ex marito della ragazza, intento a cantare spensieratamente. Con poche immagini, Russell spiega la bellezza e l’anomalia del rapporto tra i due.
Russell riesce sempre a fare cinema-emozione, anche in un film come Joy che è più debole, più vulnerabile delle sue opere precedenti. E’ un regista che ama la gente invece di disprezzarla; e ogni movimento di macchina, ogni composizione d’immagine, ogni primo piano parla di questo amore.

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