Che meraviglia questo Sangue del mio sangue. Meraviglia nella sua accezione letterale, ovvero oggetto che desta un profondo stupore. Un film dalla bellezza irregolare, scevro da qualsiasi legge razionale, da obblighi di significativi messaggi sociali; un impeto, un lampo, irruente come le cime scoscese da cui viene gettata Benedetta, la donna demoniaca. Con un film simile, Bellocchio versa il “sangue del suo sangue” e si concentra su una visione interiore, sul ricordo, sulla storia personale, e sulla continuità artistica della propria ispirazione, qui libera di girovagare attraverso una varietà di diramazioni. In un certo senso, Bellocchio si emancipa anche da obblighi nei confronti del pubblico, offrendo pochi appigli, tracce interrotte, percorsi incerti. Non che Bellocchio rinunci a comunicare: tutt’altro, chiede al pubblico di entrare nel suo cinema più intimo, segreto, fatto di pulsazioni istintive, filosofia, esoterismo sorretti dall’incanto dell’arte o deformati attraverso il grottesco.
Ogni inquadratura di Sangue del mio sangue cela un’ origine, un rimando ad un antecedente iconico: la luce dei pittori del seicento, la suggestione romantica e pittoresca, la citazione delle precedenti opere di Bellocchio (c’è anche un bed&breakfast dal nome “Buongiorno notte”), ma anche tutta la memoria filmica dei B-movies degli anni 70.
Difficile non pensare a Fulci quando vediamo il primo piano degli occhi di Benedetta, murata viva; così come è difficile non pensare alle suore di Jess Franco, ai supplizi baviani e all’inquietudine gotica di Freda. E troviamo la figura emaciata di un vampiro curvo, invecchiato, triste osservatore del ridicolo del mondo contemporaneo (il microcosmo di Bobbio), in cui ha rinunciato a vivere; un Nosferatu tragicomico e disilluso, ridotto ad andare dal dentista.
La bellezza estetica del film è innegabile: la composizione delle immagini è curata nei dettagli, tanto da farne quadri che prendono vita sullo schermo: l’aspetto di Pier Giorgio Bellocchio ad esempio è modellato sul celebre autoritratto di Courbet “L’uomo disperato”. Così come le riprese in esterni ci pongono davanti ad un paesaggio che rievoca “L’isola dei morti” di Bocklin, dipinto che ritroveremo in interni, appeso nella camera del Conte.
Figure nell’ombra, sagome scure: c’è un doppio che attraversa tutto Sangue del mio sangue. Ogni personaggio porta con se il suo altro: un altro il cui legame attraversa la storia. Un’alterità che non è solo fuori, ma anche dentro se stessi; e spinge ad un confronto doloroso.
Opera complessissima, di rimandi figurativi, simbolismi, labirinti spazio-temporali. E su tutto si innalza la Donna: salvifica, Musa e Bellezza che attraversa il tempo, luce ideale che illumina le miserie umane. Una donna al contempo stilnovista e contemporanea, sognata e reale.