Il più influente film noir mai realizzato ad Hollywood assieme a Il mistero del falco da cui però prende le distanze sia per le atmosfere che i tratti stilistici, Il grande sonno è un’opera che trascende le intenzioni del regista Howard Hawkse dello Studio (Warner Bros); un film sublime perché riesce a catturare un “oltre” cinematografico, uno spazio del sogno che assurge a mito. Il regista Hawks trasfigura gli eventi narrati finché questi non perdono linearità semantica; ci troviamo di fronte ad un oggetto filmico misterioso, indefinibile, denso quanto la sua articolazione spazio-temporale; un film che possiede una sua tridimensionalità proprio per il senso di abisso che induce nello spettatore.
Si ha la sensazione, guardando Il grande sonno, di compiere un viaggio interiore, un percorso (a tratti claustrofobico) nell’oscurità ambigua dell’essere, in cui la città diviene entità buia e terrifica che accompagna il detective nel suo itinerario metaforico. E questa è la cifra più importante del noir: la capacità di trasformare la città in paesaggio metafisico, fortemente stilizzato. La cupezza profonda dell’ambiente esemplifica un pensiero, tipicamente hawksiano, in cui il bene e il male non possiedono quei tratti distinti che il cinema del passato aveva indicato. Il noir, di cui Il grande sonno “scrive” le regole, vive di un continuo contrasto tra l’ombra e la luce, di una lotta tra bene e male in cui i valori morali non sono mai mostrati in modo inequivocabile. Tratti distintivi dell’eroe sono l’ambiguità, le reticenze, la manifesta introversione in cui coltiva dubbi ed amarezze. I noir diventano così irruzioni nell’inconscio, ed i registi si accostano alla figura del detective con un fortissimo interesse psicanalitico.
Il film ebbe un successo inaspettato, anche per via della sua problematica post-produzione che richiese numerose riscritture di sceneggiatura, montaggi successivi e l’aggiunta di scene che vennero rigirate per valorizzare il ruolo della Bacall, in un primo momento schiacciata dalla bravura dell’attrice non protagonista, Martha Vickers. Il risultato fu un film dalla trama complicatissima, in cui né lo sceneggiatore William Faulkner, né il regista, né lo stesso Raymond Chandler – autore del romanzo da cui il film è tratto – erano in grado di decifrare del tutto lo svolgersi degli eventi; ma la trama è del tutto secondaria rispetto alle atmosfere torbide e sfumate, allo svolgimento serrato e vertiginoso e allo humour sottile, carico di una sensualità nuova per Hollywood.
Le schermaglie ironiche, anti-retoriche e fieramente sessuali tra Lauren Bacall e Humphrey Bogart sono orchestrate in dialoghi tra i più belli mai scritti; una vera e propria sinfonia verbale in cui i protagonisti sono in competizione per arguzia, ironia, allusioni erotiche e puro divertimento, dietro ad una maschera di asciutta riservatezza. Il film riprende i tipici rapporti “hawksiani” tra uomo e donna, già anticipati dalle sue celebri commedie screwball in cui i personaggi femminili “dominano” la relazione e fanno traballare l’autorità maschile; opere il cui espediente stilistico principale è proprio il dialogo velocissimo, brillante, che traduce il romanticismo in forma di battaglia amorosa e moderna tra i sessi.
Ma questo è anche il film in cui Bogart trasforma la sua presenza d’attore in icona immortale, e fa del suo stile una forma d’arte. Introverso eppure ironico, sicuro di sé, carismatico nei piccoli gesti (come accendersi una sigaretta, alzare un sopracciglio o accennare ad un raro, sorprendente sorriso), Bogart è il cinema stesso. La sua calma apparente celava una forza allo stesso tempo vitale e disperata che scaturiva dallo schermo. Il grande sonno realizza un miracolo inaspettato: Bogart trova il suo corrispettivo femminile. Ed è la tensione elettrica, reale e immaginaria, che scaturisce dall’attrazione tra le due star a conferire al film una qualità metafisica che emana, ancora oggi, intatta.
Dopo il quieto eppure orrorifico Le sang des Bêtes (1949) Georges Franju gira nel 1955 un altro cortometraggio su uomini e animali. Accompagnato da un testo di Prévert, il regista ci parla della fede dei cani, della loro innocenza al cospetto della crudeltà umana: Mon Chien mette in scena l’invisibile e tragica odissea di un cane abbandonato dai suoi proprietari alla vigilia delle vacanze estive. Poetico e di una tristezza inenarrabile, quasi un thriller dai chiaroscuri profondi ma anche precursore dell’alienazione da nouveau roman, il film si apre con l’abbandono del cane in un bosco, dopo un lungo piano sequenza nel quale il paesaggio appare sempre più ostile. Respinto brutalmente dagli ipocriti avventori di una chiesa dove aveva cercato rifugio, l’animale viene lasciato solo tra i fiori e il ciglio della strada. Sempre più esausto, lo vediamo vagare tra muti emblemi di civiltà e progresso, fino all’arrivo in una Parigi rumorosa e indifferente. Lì viene catturato dagli operatori di un canile proprio mentre cercava, con fiducia, la protezione umana. Le immagini degli animali dietro le sbarre spezzano il cuore, così come accadeva in Umberto D. (1952) di Vittorio De Sica. Il finale è straziante ma ci risparmia la visione della camera a gas, fermandosi su una gabbia vuota: “non ho voluto vedere quell’atrocità”, disse Franju.
Celebre per titoli come Occhi senza volto (1960) e Judex (1964), Franju esprime nel breve spazio del cortometraggio la sua particolare sensibilità per gli indifesi e gli innocenti (anche in Occhi senza volto troviamo animali imprigionati, con i quali la protagonista condivide un destino di disperazione). Mon Chien è un film su cui aleggia una coltre oscura che priva le cose della loro luce. I forti contrasti fotografici rendono i paesaggi algidi e astratti, distanti dal martirio dell’animale; e se il cane ci appare come una creatura angelica nella sua sottomissione, gli esseri umani sono freddi e robotici, senza soffio vitale, inespressivi portatori di morte.
Il mondo è diventato una stanza rumorosa, il silenzio è il luogo magico in cui si realizza il processo creativo.
SPECIALE DAVID LYNCH (1946 – 2025) – dedicato con amore a un artista che ha segnato la mia vita, il mio modo di pensare, la mia passione per il cinema, il sogno e l’oscurità.
La Fortezza Nascosta è un’esperienza epica e lunare, collocata in un limitare di difficile definizione: luogo dell’immaginazione? Spazio della Storia che riemerge dalle polveri per stendersi davanti ai nostri occhi nella sua natura astratta e aliena? Kurosawa realizza uno dei suoi jidaigeki più personali, abdicando al realismo e stilizzando ambienti e personaggi. “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori” diventano figure di una moderna mitologia e si muovono tra deserti, rocce e nebbie, in uno stato di costante indefinitezza e privo di riferimenti. Con una immagine inedita e disorientante, il film si apre sui contadini Matashichi e Tahei inquadrandoli di spalle. Ed è meraviglioso che Kurosawa affidi il suo racconto a due personaggi umili, del tutto privi di caratteri eroici o nobili tratti psicologici. Si tratta, piuttosto, di una coppia che richiama ad un passato di cinema slapstick per le numerose gag corporali cui danno vita: in loro si ritrovano tracce dell’ingenuità di Laurel e Hardy o della disarmante sprovvedutezza di Abbot e Costello; modelli di “buddy movie” americano, come del resto è americano quel sentimento di “frontiera” espresso dalle immagini desertiche, allungate in orizzontale per mezzo di un Tohoscope che pone i personaggi ai margini dell’inquadratura e lascia immaginare un infinito fuori campo.
Non stupisce che un film del genere – dagli esterni notturni e “extraterrestri”, dai personaggi inconsueti ed erranti, uniti dal caso e dalla necessità, abbia affascinato il giovane George Lucas, che da La fortezza nascosta ha ricavato il modello per Star Wars. Quasi un western “fordiano” per l’infinitezza che lo pervade (data dai campi lunghissimi, dalle inquadrature dal basso – alla ricerca di una possibile elevazione – allo studio di luci e ombre, fino all’affermazione della “centralità” dell’essere umano) il film di Kurosawa si dipana tra sfide, cammini, prove estenuanti, battaglie e avventure dello spirito. I due contadini si imbattono in un generale e una principessa da salvare: nulla è come sembra, ciascuno indossa una maschera (la principessa veste abiti da guerriera, il generale si finge criminale); la “battaglia per l’oro” è in realtà una guerra tra “dimensioni” opposte – gli Yamana e gli Akizuki – affidata a singoli, improbabili eroi. Kurosawa ci conduce di fronte al nemico, ci fa assistere a geometriche scene d’insieme – memori delle partiture musicali-visive di Ėjzenštejn – ci trascina su ripidi pendii per lasciarci scivolare in un fiume di rocce assieme a Matashichi e Tahei, goffi e impreparati come potremmo esserlo noi.
Gli occhi della principessa sono taglienti come sciabole, la sua presenza è divina, altera. Kurosawa reintepreta lo spazio in forme nuove e sfrutta il teleobiettivo per comporre inquadrature dove i volti in avampiano appaiono giganti, mentre i deboli sopravvivono quasi schiacciati sul fondo. L’essere umano è un estraneo sulla terra, ma lotta e sopravvive, talora lanciandosi in velocissimi inseguimenti a cavallo segmentati in un’azione tumultuosa, tra la vita e la morte. La Fortezza Nascosta è la trasfigurazione del jidaigeki in un racconto paradigmatico e universale, visivamente impregnato di futuro, che pone l’uomo a confronto con un “nulla” invisibile, in cui ritrovare le tracce della propria esperienza umana.
Addio a Gena Rowlands (19 giugno 1930 – 14 agosto 2024)
Nella Hollywood delle Norma Desmond e delle Fedora, della stigmatizzazione dell’invecchiamento della star (così ben raccontata da Billy Wilder) e del ruolo ancillare della donna, Gloria traccia un deciso rovesciamento delle convenzioni. Straordinariamente moderna, Gloria anticipa quella feticizzazione e romanticizzazione del killer che trova, in età contemporanea, il suo culmine nel Ryan Gosling di Drive (2011): ma Cassavetes ne scrive i codici in chiave femminile. Misto di tenerezza e ferocia implacabile, Gloria è taciturna, introversa, tormentata dal passato eppure pronta a estrarre la pistola per una giusta causa. Vestita di raso firmato Ungaro, in tacchi alti, Gloria è bionda come la Lana Turner del criminale Johnny Stompanato; ma al posto di una tremula subalternità, esibisce l’impertubabilità del killer.
In Gloria John Cassavetes ricrea, non senza ironia, l’Atena mitologica, la figura di donna-guerriera che Hollywood aveva deposto a favore di un’immagine di femminilità disarmata, ammiccante e debole. Gloria non ci sta: è lei the lone rider, il cavaliere solitario di una New York malinconica e mortale. Originariamente concepito come script su commissione, il film divenne non solo un’opera assai amata dalla sua interprete (la Rowlands conservava il poster di Gloria nella villa di Hollywood Hills, accanto a quello di Love Streams), ma anche una meravigliosa variazione sul tema del rapporto adulto/minore nell’ambito del cinema di genere. Gloria si inserisce nella traiettoria di eroi stanchi e malinconici riscattati dall’innocenza del proprio giovanissimo partner in crime: ne fanno parte Shane di George Stevens (1953), Il Grinta di Henry Hathaway (1969), Leon di Luc Besson (1994, dichiaratamente ispirato al film di Cassavetes), fino al Logan di James Mangold (2017). Una via lattea di stelle al maschile, in cui Gloria brilla ostinata.
A chi poteva interessare un film su una donna di mezza età? In fase produttiva, Cassavetes si trovò ad affrontare l’esitazione degli studio com’era già accaduto per A woman under the influence (1974, prodotto in forma del tutto indipendente). Dopo numerose discussioni, Gloria fu acquistato dalla Columbia a condizione che la Rowlands interpretasse la protagonista. Il progetto divenne quindi, per Cassavetes, un lavoro d’amore: una dichiarazione tanto sentimentale quanto artistica per Gena, musa e compagna in cui riconosceva un linguaggio comune – quello di un cinema vivo, dalla messa in scena invisibile (ma presente) e innamorato degli esseri umani: volti, corpi colti in ogni fugace riflessione o sfumatura emozionale. Un cinema in grado di catturare le tensioni presenti nell’aria e riscriverle come contrappunto musicale; immagini che interpretano lo spazio e il tempo in forma soggettiva, vissuti direttamente dai protagonisti, di cui Cassavetes sapeva cogliere il flusso di coscienza nel suo farsi.
Gena, con le sue insicurezze, la sua preoccupazione di “non essere in grado” che talora la attanagliava, il suo desiderio totale, persino politico, di rendere giustizia alle donne che rappresentava, muoveva John fino alle lacrime. Queste emotività svanivano non appena iniziavano le riprese: allora la Rowlands diventava il personaggio, spesso conservandone carattere, movenze, abbigliamento anche fuori dal set. Nel caso di Gloria, l’attrice rimase sempre rigorosamente in parte per non turbare il giovane coprotagonista Juan Adames/Phil e mantenere quell’istintiva affinità elettiva tra caratteri. L’incontro tra Gloria e Phil escludeva qualsiasi sentimentalismo per sprigionare un amore più autentico e più difficile: privato delle ipocrisie ricattatorie di quel cinema che aveva sempre trattato i bambini come ricettacoli di facili emozioni, il rapporto attraversava durezze, incomprensioni, pulsioni delicate e talvolta indicibili.
“Gena è sottile, delicata. E’ un miracolo. E’ diretta. Crede nelle cose in cui crede. E’ capace di tutto. E’ solo grazie all’enorme capacità interpretativa di Gena che abbiamo un film: altre persone non hanno abbastanza carattere per questo lavoro. Datele qualunque cosa e sarà sempre creativa, per via del modo in cui pensa. (…) Gena si dedica completamente, è molto pura. Non le interessa sapere dov’è posizionata la macchina da presa, non le interessa venire bene, non le interessa assolutamente nulla se non diventare credibile. Quando nel film è pronta ad uccidere, mi sconvolge la sua assoluta freddezza.” (Cassavetes on Cassavetes, Ray Carnes, 2001).
Ma chi è Gloria? Ex showgirl, ex amante del boss Tony Tanzini, Gloria vive in un palazzo popolare del South Bronx, dove ha stretto amicizia con una famiglia di portoricani, i Dawn. “Non mi piacciono i bambini” è la prima frase pronunciata da Gloria di fronte al piccolo Phil; ma quando la mafia ne stermina l’intera famiglia, questa donna sul viale del tramonto diventa una furia. E non è un caso che Cassavetes abbia scelto per la sua protagonista il nome “Gloria Swenson”: una variazione sghemba della Gloria Swanson di Sunset Boulevard (1950). Nelle due ore di durata vediamo Gloria e Phil vacillare su reciproche diffidenze, annusarsi, respingersi, tentare goffamente tenerezza. Phil la osserva con la fragilità dell’infanzia e con la curiosità della pubertà, fatta di desideri indistinti, impulsi carnali, velleità adulte. La fuga li spinge a condividere insieme la notte, ed è nella penombra di una camera che Phil, ammaliato dalla bellezza e dal coraggio “maschile” di Gloria, pronuncia parole impensabili nel cinema di oggi: “Sei mia madre. Sei mio padre. Sei mia madre. Sei tutta la mia famiglia. Tu sei mia amica, Gloria. E sei anche la mia ragazza”.
Cassavetes li riprende lasciando confluire, in uno stile solo apparentemente più “commerciale”, tutta la volubile ricchezza in fieri della loro relazione. Trattiene immagini l’una sull’altra, in lunghe sovrimpressioni (a suggerire emozioni che permangono); esplora New York in piani sequenza elaborati, ad esempio la sequenza della fuga, libera e mobile come una partitura jazz; immerge la Rowlands in notti dalle luci al neon, tra rossi struggenti; la inquadra in piano americano, poi a figura intera, rivelandone l’eleganza sgualcita dai confronti a fuoco: ma Gloria è ancora più bella con la camicia aperta e il ciuffo biondo che cade ribelle sullo sguardo, rimembranza d’una fatale Veronica Lake che lentamente svanisce. Il regista gira due finali – in bianco e nero e a colori – ma per entrambi sceglie il lieto fine: “non volevo che il ragazzino soffrisse; che film sarebbe stato?”
Film del 1954 e ultimo film di Mizoguchi interpretato da Tanaka Kinuyo, che per il regista incarnò moltissimi personaggi differenti – geishe, contadine, mogli ridotte in povertà, amanti tradite, prostitute, madri – donando a ciascuna di loro un carattere intenso e unico, complesso e chiaroscurale. Mizoguchi spesso confinò le sue figure femminili in un astratto idealismo e martirio; ma Tanaka era un’artista troppo intelligente per non sfuggire a tale prigionia attraverso la ricchezza densa e profonda, talora misterica, delle proprie interpretazioni. Anche Hatsuko, la “mistress” di The Woman in the Rumor, è una donna dalla personalità sfumata. Coordinatrice inflessibile di un bordello di lusso – una tradizione di famiglia che rivendica con orgoglio – Hatsuko conosce però i tormenti e l’infelicità dell’amore, e nutre segretamente il sogno di una vita “rispettabile” e di un impossibile matrimonio con un dottore più giovane di lei. Nel bordello è ospite la figlia di Hatsuko, Yukiko: una ragazza dall’aspetto elegante e urbano, istruita e sensibile, ostile alla professione materna che però le ha consentito di portare a termine gli studi. Anche Yukiko è dunque un personaggio che vive di tensioni opposte e inconciliabili, divisa tra il privilegio della propria posizione ed il disprezzo per l’attività del bordello, che di quella posizione è il fondamento economico.
Mizoguchi, nel tratteggiare con grande finezza ogni aspetto delle due protagoniste – dai kimono variopinti e sensuali della sorridente Hatsuko ai completi scuri e rigorosi di una silenziosa e ombrosa Yukiko – ci pone davanti a due caratteri che mutano davanti ai nostri occhi, talora ponendosi in aperta opposizione, altre volte confondendosi fino a scambiarsi i ruoli. Entrambe innamorate del giovane ed opportunista dottore (un altro di quei personaggi maschili vili e mediocri che costellano la filmografia di Mizoguchi), madre e figlia troveranno nel sentimento la chiave per mettersi reciprocamente a nudo, scarnificarsi, fino a rivelare un nucleo di verità che le porterà a comprendersi e avvicinarsi. Le due donne diventano quindi parte di un’unica personalità femminile dalla natura multiforme: istintiva e materna, passionale e protettiva, cinica e innocente al tempo stesso. Questo confronto graduale, via via più intenso sino a diventare emotivamente sconvolgente tanto per i personaggi quanto per lo spettatore, prende vita in un contesto spaziale – quello dell’ampio e labirintico bordello – che Mizoguchi filma con una maestria a sua volta imperscrutabile e rarefatta. La sua macchina da presa si pone a distanza per registrare uno spazio profondo, attraversato ora da linee rette, ora da prospettive oblique. Gli elementi in scena sono numerosi e stratificati: in una singola inquadratura vive una complessità di gesti, storie, di figure umane in primo piano o sullo sfondo. Mizoguchi seziona l’immagine, la stringe grazie a porte, elementi architettonici o dell’arredo; le esistenze pulsano e scorrono dietro una tenda, in fondo a corridoi, ai margini o al centro dell’inquadratura. Le prostitute appaiono non solo come corpi di consumo, ma ciascuna di esse ha una sua specificità, un momento di gloria dato da un gesto significante, una riga di dialogo struggente o da brevi quanto vivide sottotrame. I piani sequenza si muovono assecondando la pluralità di vicende umane, l’incrocio di destini: sullo schermo passa la Storia, quieta e dolorosa, fatta di ombre e pianti, mentre un cielo notturno particolarmente opaco (bellissima la fotografia di Miyagawa Kazuo, che predilige un buio grigio e privo di romaticismo) ne è testimone distante e immoto.
E’ il 1934 quando Ernst Lubitsch, indiscusso maestro della commedia sofisticata, il regista più originale, brillante, spregiudicato della storia di Hollywood, consegna Design for living alle sale americane. Incentrato su un ménage à trois tra il pittore George, lo scrittore Tom e la musa Gilda, il film di Lubitsch mette in scena, in 90 minuti di ellissi, mirabili ed essenziali inquadrature, metafore visive e composizioni eleganti e allusive, la verità di un rapporto amoroso umanissimo e sfuggente alle ipocrite convenzioni della società. Legati da un’attrazione e un riconoscimento che li porta a ripudiare le banalità del romanticismo sentimentale e monogamo in nome di un sentimento insopprimibile – fondato sulla libertà quanto su uno sguardo ironico e giocoso nei confronti della vita – Tom, George e Gilda vivono una relazione dapprima illudendosi di disciplinarla attraverso regole, poi scoprendo l’impossibilità di domare l’impulso amoroso. In un vaudeville di tradimenti, abbandoni e riconciliazioni, i tre sperimentano un sentimento rivoluzionario, consapevoli della sua natura complessa. Il loro Design for living – progetto di vita – sfugge a categorizzazioni e rifiuta il concetto di amore come cellula sociale, base strutturale produttiva. Come scrisse Baudelaire: “Essere un uomo utile mi è sempre sembrato qualcosa di molto repellente”. È questo dandysmo a informare la personalità di Tom, George e Gilda, e a renderli innocentemente incapaci di vivere secondo la morale comune. Affiancato da Ben Hecht, autore di una sceneggiatura affilata e impudente che sfidava il Codice Hays, Lubitsch non dimentica però gli aspetti più teneri e appassionati della romance. I tre si amano profondamente, il romanticismo è profondo e sincero, al punto da indurli a “bruciare” i simboli del successo – gli abiti eleganti, il cappello a cilindro – per non tradire la natura bohémien del loro sentimento.
Queste considerazioni introduttive ci servono a riflettere sullo stato non solo del cinema, ma anche dell’amore e della società nel 2024, a 90 anni di distanza dall’opera di Lubitsch. Challengers di Luca Guadagnino prende le mosse da una vicenda che ha molto in comune con Design for living: il rapporto tenero, ambiguo tra Art e Patrick e il ruolo di Tashi, musa e arbitra degli equilibri tra i due giovani. Al posto di soffitte parigine e ambizioni artistiche e anarchiche, troviamo il mondo del tennis con le sue contraddizioni: il lusso, la ferrea disciplina, l’ossessivo potere del marketing che permea le vite dei protagonisti. Se Gilda inorridita dichiarava: “Vendi tutto quello che vuoi, ma non me. Sono stufa di essere un marchio di fabbrica”, per Tashi l’esposizione pubblicitaria è necessaria. Le immagini patinate che compongono una personalità vincente e affascinante, affisse su pareti, billboard o esposte sugli schermi, offrono consistenza a un carattere che vive di autocensure emotive e frustrazioni, e considera la debolezza dell’amore un affronto da reprimere. Se Gilda invitava Tom e George ad avere fiducia in se stessi, il ruolo di musa svolto da Tashi si riflette sulla vita di Art e Patrick in forma di umiliazioni (psicologiche e sessuali) e perenne insoddisfazione.
Le relazioni, in Challengers, sembrano muovere esclusivamente da provocazioni, competitività, narcisismo; ingoiato dall’individualismo e allestito in forma di parata sportiva, l’amore non è totalizzante, né generoso o libero. Un sentimento fondamentalmente narcisistico come quello messo in scena da Challengers trova il contesto d’elezione nel campo da tennis, spazio aperto al pubblico e quindi esibizionistico. Nel film di Guadagnino il ménage à trois è meramente formale, l’incontro di tre personalità distinte e separate che entrano in relazione senza però mai comunicare né godere del rapporto a tre – come entità, mondo in cui riconoscersi. Nel suo splendore visivo, Challengers è un film di superfici (la bellezza dei corpi, la nitidezza degli esterni, il valore accessorio dei dialoghi, spesso sovrastati dalla colonna musicale) composte in un nucleo strutturale postmoderno. La scelta di una cronologia frammentaria e non lineare accentua lo scintillio degli istanti. Il regista immette nel suo lavoro di direzione l’ammirazione per il cinema del passato e si esibisce in citazioni hitchcockiane, tecnicismi, tour de force virtuosistici della macchina da presa. Il montaggio segue i ritmi dinamici del gioco, la pallina acquista una sua soggettività, il contre-plongée rende il campo trasparente, spingendo il voyeurismo fin nel sottosuolo. Ma non c’è profondità dietro il lussuoso movimento delle immagini (instagrammabili e forti di un’estetica saldamente aggrappata alla contemporaneità). Manca calore umano così come le riprese point of view sono prive di soggetto. È un cinema che eccelle nel fare marketing di se stesso e vendere la propria confezione.
Patrick e Art restano gusci vuoti, personaggi sorretti da pulsioni elementari (competizione e desiderio di possesso dell’oggetto-Tashi). A sua volta la ragazza, pur nella sua radicale determinazione, è del tutto asservita all’immagine sociale e incapace di trovare la radice del proprio desiderio se non attraverso il transfert tennistico. Il tennis, in Challengers, non è la magnificazione dell’amore o una sua metafora, ma il grande Spettacolo in cui celarlo e reprimerlo, fino ad avvilirlo con le stantìe dinamiche del tradimento. Metonimicamente, Art, Patrick e Tashi giocano perché impreparati all’amore.
Nel 1968 Ōshima gira un film nerissimo in cui delinea, attraverso dialoghi taglienti e scelte grafiche nette, un’antropologia del popolo giapponese nel suo rapporto travagliato con la Corea; e allo stesso tempo esprime una viscerale dichiarazione contro la violenza di stato e la pena di morte. Prendendo spunto da “L’incidente di Komatsugawa”, celebre caso di cronaca del 1958 che vide un giovane coreano condannato a morte per l’uccisione di due studentesse, Ōshima realizza il film aderendo al progetto “film da 10 milioni di yen” (produzioni a basso costo con attori non professionisti). L’esiguità del budget diventa una una sfida artistica per il regista, che crea uno dei suoi film più radicalmente avanguardistici e politicamente incandescenti. Partendo da un incipit pseudo-documentario, in cui la natura della finzione viene subito esplicitata dalla voce fuori campo (“Voi che siete a favore della pena di morte, avete mai visto un’esecuzione? Avete mai visto la camera della morte?”), Ōshima mette in scena l’esecuzione di un giovane prigioniero coreano accusato di duplice omicidio; ma il ragazzo, identificato con la lettera “R”, si “rifiuta di morire” e piomba in uno stato d’amnesia. L’intero gruppo operativo adibito all’esecuzione – un funzionario, un cappellano, un medico e delle guardie carcerarie – si adopera con ogni mezzo (incluso l’omicidio) affiché il giovane recuperi la memoria, per poterlo impiccare nuovamente.
Ōshima ci conduce nel regno del grottesco e del paradosso senza mai scindere il gusto per la commedia crudele dall’oscenità morale che pervade gli ufficiali, creature prive di rimorso e votate al piacere della morte. L’aridità dei carnefici, la burattinesca stupidità di esecutori ligi alla legge – in ogni sua clausola più perversa – contrasta con l’immagine del condannato, benedetto dall’oblio, bianco e privo di espressione, defraudato della propria essenza da un Giappone che ne ha stroncato corpo e spirito. A R, illuminato da una luce bianca, si affianca la presenza della sorella, che appare come una visione e alla quale Ōshima affida il ruolo di una “Corea incarnata”, entità che attraverso il dialogo espone la propria sofferenza, il rancore, l’odio. R e la sorella, nudi e avvolti da una bandiera giapponese, sono stesi sul pavimento mentre gli ufficiali festeggiano la loro fine con giochi e canti infantili. La regia, stupefacente, ricorre a piani sequenza che esaltano l’azione quasi del tutto racchiusa in interni (a parte un intermezzo centrale) e affilata profondità di campo. Ōshima usa anche in modo purissimo il primo piano e l’esplorazione del corpo dei due coreani, di cui mette in risalto l’innocenza e il candore – la pelle diafana, la nudità di mani e piedi, la vulnerabilità della posizione orizzontale cui vengono costretti.
Martiri e immobili, lo sguardo perso in un orizzonte infinito, R e la ragazza si stringono in un amore che non può salvarli. Gli esecutori, intenti a scambiarsi parole mostruose (di gioia e orgoglio per le morti inflitte), li osservano con piacere entomologico. Un montaggio ellittico, l’inserimento di fotografie, la presenza della voce fuori campo e il fluviale dialogo meta-teatrale fanno de L’impiccagione una delle opere più impressionanti, incisive e formalmente innovative di Ōshima; un film che contiene suggestioni del surrealismo e di Buñuel, soffuso del potere del sogno e segnato dal labile confine tra finzione e realtà. Nel finale una luce accecante, quasi una malata divinità, si manifesta a R consegnandolo al suo destino; mentre i grigi carnefici si complimentano reciprocamente per il lavoro svolto, emblemi di un Giappone burocratico, disumano e alienato.
“Per favore, non guardate questo film come arte astratta… Voi spettatori dovreste guardarlo nello stesso modo in cui combattete, lavorate, amate, odiate. Guardando questo film dovreste sentirvi parte di un’azione” (Ōshima Nagisa).
Il 2024, ormai al crepuscolo, è un anno importante per il cinema giapponese: in tutto l’arcipelago sono in corso, da mesi, le celebrazioni per il centenario della nascita di Hideko Takamine, tra le interpreti più amate del Sol Levante. Presenza magnetica, di straordinario talento, Hideko Takamine incarnò la bellezza dell’amore e il mistero dei fenomeni naturali. Guardarla sullo schermo significa non solo vivere un universo di sentimenti ed emozioni espressi con delicatezza spontanea e leggera, ma diventare parte di un’esistenza parallela, di mondi che prendono vita solo per la sua stupefacente presenza. Al suo passaggio, la finzione cessa d’essere mera finzione: le mille vite di Hideko Takamine sono nostre. Antidiva e vera, scelse intenzionalmente di ritrarre donne comuni, sentimenti quotidiani e reali ma non per questo meno avvincenti o tempestosi. Nella sua lunga e ininterrotta carriera durata cinquant’anni lavorò con tutti i più grandi registi del Giappone ( tra cui Gosho Heinosuke, Toyoda Shirō, Kobayashi Masaki). Ozu Yasujirō la scelse come attrice bambina per Tokyo Chorus (1931), e successivamente le affidò il ruolo dell’irruente e anticonformista Mariko ne Le sorelle Munekata (1950), che la giovane Takamine interpretò con fremente vitalità e spirito da grande commediante. Ma furono Kinoshita Keisuke (con cui girò 12 film) e ancor di più Naruse Mikio (che la volle come protagonista in 17 film) a lasciarsi abbagliare dalla sua luce e metterla al centro dello schermo per incarnare “tutte le donne”: personaggi comuni – autiste di bus, insegnanti, ballerine, mogli, madri, amanti appassionate, giovani indipendenti alla ricerca di riscatto, figure idealiste colme di speranze e futuro o ferite violentemente dal destino.
Takamine fu in grado di calarsi naturalisticamente in ciascuna di loro, portando una intensa sensibilità e la verità di un sorriso pulito e autentico. La sua recitazione fresca, immediata, talora bollente, reca il mistero del vivere e un’ostinata irriducibilità che non arretra nemmeno di fronte alle onde travolgenti del destino. Tra i film girati con Naruse troviamo grandi capolavori come Lightning (1951), racconto di formazione di straordinaria modernità; Floating Clouds (1955), tragica vicenda amorosa che anticipa la Nouvelle Vague sia per sensibilità che struttura formale, opera ipnotica e immersa in un dolore esistenzialista, in cui Takamine appare luminosa come un sogno; When a woman ascends the stairs (1960) sulla difficile vita delle donne che lavorano nei bar dell’elegante e urbano distretto di Ginza.
Nel 1954, sul set diTwenty-four Eyes, si innamora di Zenzō Matsuyama, giovane sceneggiatore: il matrimonio tra la diva e l’anonimo scrittore suscita scalpore, ma i due restano insieme tutta la vita, formando un duo artistico indissolubile, fatto di corrispondenza di amorosi sensi e affinità artistiche elettive. Spiriti poetici e appassionati, moderni e irrequieti, realizzano film anticonformisti e lacerati da impeti progressisti e tensioni di futuro, comeHappiness of us alone (1961) incentrato su una coppia di sordomuti, e Mother Country(1962) che ritrae la triste esistenza degli immigrati giapponesi alle Hawaii alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. Takamine, nonostante le convenzioni dell’epoca, continuerà a lavorare anche dopo il matrimonio, dimostrando fortissima libertà e indipendenza a dispetto dei più veti tradizionalismi: “As a wife, as a woman”. Fu anche attiva come scrittrice e saggista, pubblicando molti libri di successo sin dal suo periodo di massimo splendore come attrice. Inoltre fu pittrice e collezionista d’arte: alcuni dei suoi quadri sono esposti al Museo d’arte di Setagaya.
A seguire, alcune recensioni brevi dei suoi film più celebri, vere pietre miliari della storia del cinema giapponese (e non solo).
Alcune recensioni brevi
LE SORELLE MUNEKATA (1950), OzuYasujirō Film di emozioni profonde, veicolate da due personaggi femminili: Mariko, giovanissima, vestita all’occidentale, indipendente, pronta ad irridere la tradizione; e sua sorella maggiore Setsuko, in kimono, aderente agli ideali del passato al punto da accettare un marito abusivo: ma in lei qualcosa freme, e si nota nei dettagli. Bisognerebbe aprire un capitolo a parte per i sorrisi di tante protagoniste dei film di Ozu: così misteriosi, sorrisi che rispondono ad una cultura di gentilezza, ma che celano i misteri di una musa arcana. Setsuko sorride ma in lei avviene la rivoluzione, anche grazie alla vitalità di Mariko, la cui propensione alla commedia e all’equivoco ricorda l’incanto di una giovane Carole Lombard. Ed il finale è tra i più sottilmente enigmatici, inafferrabili: Setsuko sceglie la libertà, con un gesto intensamente moderno e antiromantico. E’ meraviglioso vedere un personaggio femminile affrancarsi dalle aspettative sociali e scegliere, nelle sue parole, “la propria strada” – soprattutto negli anni ’50. E’ un film splendido, complesso, dalle sfumature noir, attraversato da momenti di angoscia insostenibile – come nei confronti tra Setsuko e il marito. L’atmosfera è intrisa di violenza anche se Ozu non mostra quasi nulla: ma noi temiamo per Setsuko. Quando il marito infila una mano in tasca crediamo stia per estrarre un’arma, un oggetto per colpire Setsuko. Ozu in pochi secondi gira una scena d’orrore nel nostro immaginario.
Le Sorelle Munekata
CARMEN COMES HOME (1951), Kinoshita Keisuke Una spogliarellista dal cuore d’oro, dopo aver ottenuto un grande successo a Tokyo con i propri spettacoli, torna nel villaggio rurale natio assieme ad un’amica-collega. Qui dà scandalo improvvisando uno strip tease per gli abitanti del paese; il padre si imbarazza, il preside si indigna, i paesani, prevedibilmente, ne vanno pazzi. Tra Billy Wilder e Frank Tashlin, CARMEN TORNA A CASA è il primo film a colori del Giappone, girato da quel genio di Keisuke Kinoshita. La meravigliosa Hideko Takamine (“Carmen la Dolce”) danza in reggiseno tra colline, cieli azzurri e mucche che pascolano: una visione squisita e surreale, enfatizzata dai campi lunghi in cui brillano macchie di colore. Tra canzoni, scherzi, equivoci, le gonne delle ragazze scivolano giù, rivelando gambe fantastiche. Un film di straordinaria bizzarria e dolcezza.
Carmen Comes Home
INAZUMA (Lightning, 1952), Mikio Naruse Si tratta di uno dei più bei film mai realizzati sulla vita di una donna ed è talmente “reale” da lasciar percepire allo spettatore il flusso di coscienza della protagonista. La ventitreenne Kiyoko si guadagna da vivere lavorando come guida su un bus turistico ed è la più giovane dei quattro figli che la madre ha avuto da quattro uomini diversi. Vittima della propria famiglia disfunzionale, che la vorrebbe sposata al volgare fornaio Tsunachiki, Kiyoko decide di andare a vivere da sola; ma non è facile liberarsi del tutto dalla dolorosa morsa dei legami familiari. I “lampi” del titolo sono i profondi turbamenti che scuotono la ragazza di fronte al disfacimento morale della famiglia: le sorelle diventano amanti del laido Tsunachiki, il fratello bighellona in perenne stato di ubriachezza, la madre si trincera nella rassegnazione. Film sensoriale, tattile, materico: le emozioni di Kiyoko diventano nostre senza filtri, se non quello invisibile della mano del regista, così delicata e rispettosa. Nei film di Naruse si vedono le donne pensare, vivere, cercare nuove possibilità: è un cinema vero, e fa impallidire tutti i proclami che vengono fatti al giorno d’oggi sul “cinema femminile”. Senza sensazionalismi, ma assorto, discreto, concentrato fino a cogliere ogni sfumatura, Naruse realizzava ritratti femminili d’una bellezza simile a quella dei film di Ophuls: e sarà forse un caso, ma a un certo punto Kiyoko scrive una lettera e si invaghisce di un pianista…
Inazuma (Lightning)
CARMEN FALLS IN LOVE (1952), Kinoshita Keisuke Il film viene realizzato dal regista Kinoshita dopo “Carmen comes home” (1950), primo film a colori del Giappone, in cui Takamine Hideko danzava svestita tra verdi colline, mucche al pascolo e contadini stupefatti. Il regista torna al bianco e nero in questo sequel tutt’altro che realista: girato quasi completamente con “dutch angles”, ovvero inquadrature inclinate (tipiche dell’espressionismo), il film è una satira pungente e a tratti spaventosa, priva della dolcezza del suo antecedente. Carmen, attrice di varietà ispirati a Bizet, viene maltrattata sia fisicamente che psicologicamente; la povertà incattivisce la società, le classi sociali sono rigorosamente divise (si veda la casa della ricca e viziata famiglia Sudō) e soprattutto aleggia ancora la presenza della bomba atomica: oggetto di numerose battute di dialogo, temuta, evocata, protagonista di incubi e ossessioni. Kinoshita ama la sua pura, ingenua Carmen, schernita da tutti per la sua candida semplicità, soprattutto dal velleitario artista di cui si innamora. La nostra eroina canta “per non pensare alla sofferenza”, mentre intorno si agita un mondo che comprende narcisisti patologici, nostalgici del riarmo, violenti. Kinoshita allestisce scenografie surrealiste assai francesi, scrive rapidissimi e allusivi dialoghi screwball e infonde un profondo senso di disagio con una colonna sonora che alla musica sostituisce il rumore delle bombe. L’opera di un genio assoluto.
Carmen Falls in Love
THE GARDEN OF WOMEN (1954) Kinoshita Keisuke Questo è, in un certo senso, il film “horror” di Kinoshita Keisuke. Nel raccontare la durissima vita quotidiana delle studentesse in un college di Kyoto, il regista mette in risalto l’assoluta mancanza di gioia, libertà spirituale e amore cui vengono costrette le ragazze, ancora sottoposte a una spietata disciplina patriarcale. Tra loro, l’idealista e fragile Yoshie (Takamine Hideko) insegue l’amore (con un ragazzo vietatole dal padre) e confida in un futuro di realizzazione personale; ma la famiglia e l’istituzione scolastica la schiacciano senza pietà. In ogni immagine brucia l’angoscia, mentre il regista illumina la bellezza delle giovani e un cupo bianco e nero ci mostra le loro ali spezzate. Un racconto di crudele realismo, saturo di tristezza e morte, che ispirò Oshima Nagisa a diventare regista a sua volta.
The Garden of Women
TWENTY-FOUR EYES (1954), KINOSHITA KEISUKE Le ragazze in bicicletta del cinema giapponese cercano l’indipendenza, sono autonome e proiettate verso il futuro, anche se la società fa di tutto per reprimere il loro slancio. Takamine Hideko in Twenty-four eyes(Ventiquattro occhi, 1954, Kinoshita Keisuke) è l’idealista, appassionata insegnante Hisako. La giovane sfreccia lungo le strade di un’isola remota, suscitando lo stupore degli abitanti e l’ammirazione dei suoi giovanissimi studenti: è la rappresentazione di una libertà giovane, leggera, su cui ancora non pesa l’amarezza dell’esperienza e la perdita delle illusioni.
Twenty-four eyes
A WIFE’S HEART (1956), Naruse Mikio Takamine – Mifune, un temporale d’amore. Il cinema di Naruse ha sempre fatto dei fenomeni naturali una metafora dei tumulti del cuore e della forza devastante del desiderio. In a Wife’s heart (1956), proprio a causa di una pioggia inaspettata, l’infelicemente sposata Kiyoko e l’impiegato di banca Kenkichi trovano riparo in un ristorante. Qui la conversazione scivola inavvertitamente dalla norma: si fa colloquio intimo, parola sorridente, avvicinamento. L’emozione cresce e straripa. Kinkichi pronuncia il suo nome: “…Kiyoko-san!”, come se quel suono racchiudesse la confessione d’un sentimento. Kiyoko trasalisce, spalanca gli occhi, lo ferma con lo sguardo. L’aria è elettrica, ma in pochi secondi i due si ricompongono. Naruse si allontana dai loro visi, rinuncia al primo piano, esattamente come Kiyoko e Kenkichi, nell’imbarazzo, hanno appena rinunciato alla parola. Pesa, su di loro, la materia del non-detto, greve come la pioggia.
A Wife’s Heart
UNTAMED WOMAN (1957), Naruse Mikio Film anomalo e straordinario nella sua costruzione di un personaggio femminile “non soccombente”. L’umiliata e offesa Shima (Takamine) si rialza cento volte, impara a tener testa a uomini deboli e indegni (dando vita a impagabili scene comiche, come quando innaffia con l’idrante il marito traditore). In una sequenza molto bella, tutta incentrata sulla disillusione, Shima viene baciata dal fascinoso proprietario dell’albergo dove lavora (Mori Masayuki, sempre perfetto nel ruolo di vigliacco), e un grosso mucchio di neve cade dal tetto con un tonfo sordo. Naruse sta dicendo agli spettatori – e alla protagonista – che non si tratta di un bacio romantico, e che quel mucchio di neve caduto a peso morto è il preludio ad una serie di viltà inflitte dall’uomo alla ragazza. Dopo un’esistenza di ingiustizie e privazioni, Shima imparerà a usare la bicicletta e creerà una propria attività, diventando un emblema di quel coraggio femminile che spesso troviamo nel cinema di Naruse: quelle celebri figure femminili che “sembra stiano per soccombere, ma poi non lo fanno”
Untamed Woman
QUANDO UNA DONNA SALE LE SCALE (1960), Naruse Mikio Il film di Naruse e L’APPARTAMENTO (Billy Wilder) sono entrambi del 1960 e ci dipingono la stessa tipologia maschile: l’uomo “distinto e affascinante”, apparentemente passionale, in realtà vile seduttore. Nel celebre film di Wilder, Mr. Sheldrake (Fred MacMurray) lascia alla povera Kubelik, sua amante, una banconota con cui comprarsi un regalo di Natale e se ne va dichiarando di non poter divorziare dalla moglie. Nel film di Naruse, l’elegante Mr.Fujisaki (Mori Masayuki) seduce Keiko (Takamine Hideko) e passa la notte con lei (quasi costringendola), per poi abbandonarla il mattino seguente, lasciandole azioni di poco valore come risarcimento. Come Sheldrake, Fujisaki ammette di non avere il fegato di rompere con la moglie e usa il “pagamento” come forma di chiusura di un rapporto indecoroso per la propria posizione. Anche nella rappresentazione ci sono similarità: in entrambi i film li vediamo seduti al bar/ristorante, in raffinati completi scuri, assorti in conversazioni eleganti e urbane.
Quando una donna sale le scale
IMMORTAL LOVE (1961), Kinoshita Keisuke (Satako (Takamine) e Heibei (Nakadai) si detestano da 30 anni. Il regista Kinoshita attraversa la storia collettiva a partire dall’interno di un mortifero rapporto matrimoniale, dove per circa tre decenni le dinamiche sentimentali restano le stesse: il titolo “Immortal Love” (riferito a un terzo personaggio, vero amore di Satako) potrebbe essere benissimo rovesciato in “Immortal Hate”. Nonostante la trama da feuilleton, le “scene da un matrimonio” interpretate da Nakadai Tatsuya e Takamine Hideko sono stupende, taglienti, un gioco di continua crudeltà in cui i due personaggi cercano costantemente di superarsi. Una coppia elettrica che si “uccide” fino ad addolcirsi nella parte finale. Negli ultimi minuti Kinoshita si diverte a mostrarci Satako e Heibei ormai “addomesticati” e pone tra loro la presenza ingombrante di un moderno frigorifero, quasi un terzo personaggio nella scena.
Immortal Love
AS A WIFE, AS A WOMAN (1961), Naruse Mikio Due donne: una moglie (Awashima Chikago), un’amante (Takamine Hideko), si contendono lo stesso uomo da più di dieci anni (Mori Masayuki nel suo ruolo più sgradevole). “As a Wife, as a woman”, è una presa diretta sui costumi e la società dell’epoca. Se la presenza di un’amante era comunemente accettata, al punto da essere ufficiosamente regolata da codici di comportamento che definivano il suo ruolo in rapporto alla famiglia dell’uomo, non di rado il protrarsi negli anni della relazione aveva conseguenze drammatiche. Naruse studia le vite parallele della moglie e dell’amante, accomunate da un destino di infelicità, sopportazione, creazione di maschere sociali, con in più l’umiliazione di un accordo economico. Il regista è straordinariamente bravo nell’interlacciare due esistenze nel breve spazio della durata del film. Percepiamo il peso degli anni, la fatica, l’involontaria “convivenza”, la paura reciproca. Due esistenze-ombra. Il montaggio è particolarmente ellittico: Naruse sperimenta più del solito con tagli e giunzioni, compie un editing “emotivo” concentrando anni in passaggi di pochi secondi. Come spesso accade, il regista è interessato al sentire, al tempo interiore, alla percezione soggettiva delle sue protagoniste. In una scena che lascia senza fiato, Ayako, la moglie, vede i bambini piccoli uscire dalla stanza. Un taglio impercettibile, e dalla stessa porta rientrano i due ragazzi ormai grandi. Sono passati anni, ma lei, di spalle, sembra non essersi mossa: immobile nelle abitudini e nello spazio circoscritto degli obblighi sociali. È il 1961, e ancora la vita delle donne è completamente subordinata ad inerti ed egoiste figure maschili. Naruse è particolarmente critico nei confronti dei suoi personaggi: gli adulti ci appaiono deludenti e privi di luce interiore, insoddisfatti per conformismo e viltà. La rinascita ideale è affidata al sorriso dei due ragazzi, che gettandosi alle spalle il melodramma familiare cercano l’indipendenza e vanno a sognare al cinema.
Appunti su THE PORNOGRAPHERS ( Jinruigaku nyūmon, Introduzione all’antropologia, 1966). Il primo film che Imamura realizza da indipendente, senza avere alle spalle la Nikkatsu, porta alle estreme conseguenze la sua visione del Giappone post bellico – corrotto, smarrito, privo di etica e sedotto dal capitalismo di matrice statunitense – e intensifica lo sperimentalismo linguistico. The Pornographers mette in scena le vicende di Subu, uno sgangherato produttore di film pornografici nei bassifondi di Osaka. L’uomo vive con una vedova, Haru, e i suoi due figli: il viziato Koichi e la quindicenne Keiko, nei confronti della quale prova una morbosa attrazione. Assistiamo a situazioni e contesti di estremo degrado spirituale e morale (incesto, pedofilia, prostituzione, sfruttamento) che Imamura rappresenta attraverso soluzioni formali di grande rigore e originalità. Più va in scena l’indicibile, più Imamura formalizza con un’arte grafica astratta, chiudendo il caos tra le sezioni verticali/orizzontali di palazzi, le pareti di una camera, le cornici di un effetto mascherino prodotto dal profilmico (travi, porte, grate alle finestre). Lo stile accoglie il deragliamento della società giapponese e lo imprigiona in astrazioni geometriche per intensificare il distacco dell’osservatore rispetto alla materia osservata. Solo la distanza può infatti permettere a Imamura un’analisi tanto capillare e distillata, capace di addentrarsi nelle dinamiche più intime e perverse di una famiglia che è una grottesca metamorfosi della famiglia tradizionale. Questa “alterazione dell’armonia” è resa da Imamura attraverso l’uso di particolari prospettive e profondità di campo, indicative delle dinamiche tra i personaggi: i volti in avampiano ci appaiono enormi, i corpi sullo sfondo sono rimpiccioliti, creature di scarto. Non c’è equilibrio nei consorzi umani, dominati da sopraffazione, istinti, avidità.
Imamura tavolta registra con occhio glaciale, altre volte ci coglie di sorpresa, lasciando che le emozioni facciano irruzione con l’intensità di una lama: l’apparizione di una lacrima che taglia a metà l’inquadratura; un camera car all’indietro che parte dal primissimo piano di un volto per poi allontanarsi, lasciandolo solo nella vastità della sua follia; e ancora espressioni contorte nella disperazione o mella schizofrenia, in preda a dolori, impulsi, bizzarre superstizioni. Come in Unagi (1997), un pesce (in questo caso una carpa, che Haru crede sia lo spirito del defunto marito) osserva la degenerazione dell’umanità, testimone impotente e osservatore magico, cui forse è dato comprendere ciò che l’umano non sa più discernere. Inquadrature dall’alto, attraverso la trasparenza dell’acqua, o sghembe, crepe nel visibile, ci svelano una società giapponese che ha perso il senso del tabù, del sacro, persino il rispetto dell’innocenza e della malattia mentale. Imamura lascia colare il suo humor nero rendendo il film un’esperienza tanto sgradevole quanto voyeuristica e pulsionale: spinti a nostra volta da una curiosità privi di scrupoli, vogliamo sapere quanto ancora il limite del rappresentabile possa spingersi oltre. Ombre di Kinugasa, di Mizoguchi e di Ozu sembrano presenti come fantasmi in un mondo degenerato.