LA FORTEZZA NASCOSTA di Akira Kurosawa (1958)

La Fortezza Nascosta è un’esperienza epica e lunare, collocata in un limitare di difficile definizione: luogo dell’immaginazione? Spazio della Storia che riemerge dalle polveri per stendersi davanti ai nostri occhi nella sua natura astratta e aliena?
Kurosawa realizza uno dei suoi jidaigeki più personali, abdicando al realismo e stilizzando ambienti e personaggi. “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori” diventano figure di una moderna mitologia e si muovono tra deserti, rocce e nebbie, in uno stato di costante indefinitezza e privo di riferimenti.
Con una immagine inedita e disorientante, il film si apre sui contadini Matashichi e Tahei inquadrandoli di spalle. Ed è meraviglioso che Kurosawa affidi il suo racconto a due personaggi umili, del tutto privi di caratteri eroici o nobili tratti psicologici. Si tratta, piuttosto, di una coppia che richiama ad un passato di cinema slapstick per le numerose gag corporali cui danno vita: in loro si ritrovano tracce dell’ingenuità di Laurel e Hardy o della disarmante sprovvedutezza di Abbot e Costello; modelli di “buddy movie” americano, come del resto è americano quel sentimento di “frontiera” espresso dalle immagini desertiche, allungate in orizzontale per mezzo di un Tohoscope che pone i personaggi ai margini dell’inquadratura e lascia immaginare un infinito fuori campo.

Non stupisce che un film del genere – dagli esterni notturni e “extraterrestri”, dai personaggi inconsueti ed erranti, uniti dal caso e dalla necessità, abbia affascinato il giovane George Lucas, che da La fortezza nascosta ha ricavato il modello per Star Wars.
Quasi un western “fordiano” per l’infinitezza che lo pervade (data dai campi lunghissimi, dalle inquadrature dal basso – alla ricerca di una possibile elevazione – allo studio di luci e ombre, fino all’affermazione della “centralità” dell’essere umano) il film di Kurosawa si dipana tra sfide, cammini, prove estenuanti, battaglie e avventure dello spirito. I due contadini si imbattono in un generale e una principessa da salvare: nulla è come sembra, ciascuno indossa una maschera (la principessa veste abiti da guerriera, il generale si finge criminale); la “battaglia per l’oro” è in realtà una guerra tra “dimensioni” opposte – gli Yamana e gli Akizuki – affidata a singoli, improbabili eroi.
Kurosawa ci conduce di fronte al nemico, ci fa assistere a geometriche scene d’insieme – memori delle partiture musicali-visive di Ėjzenštejn – ci trascina su ripidi pendii per lasciarci scivolare in un fiume di rocce assieme a Matashichi e Tahei, goffi e impreparati come potremmo esserlo noi.

Gli occhi della principessa sono taglienti come sciabole, la sua presenza è divina, altera. Kurosawa reintepreta lo spazio in forme nuove e sfrutta il teleobiettivo per comporre inquadrature dove i volti in avampiano appaiono giganti, mentre i deboli sopravvivono quasi schiacciati sul fondo. L’essere umano è un estraneo sulla terra, ma lotta e sopravvive, talora lanciandosi in velocissimi inseguimenti a cavallo segmentati in un’azione tumultuosa, tra la vita e la morte. La Fortezza Nascosta è la trasfigurazione del jidaigeki in un racconto paradigmatico e universale, visivamente impregnato di futuro, che pone l’uomo a confronto con un “nulla” invisibile, in cui ritrovare le tracce della propria esperienza umana.

Lascia un commento