
Parlando del suo film Ponyo sulla scogliera (2009), Miyazaki dichiarò in un’intervista che in natura “il male non esiste”. Da sempre proteso verso una nuova armonia tra uomo e ambiente, il grande animatore giapponese sottolineava l’esistenza di cicli naturali da assecondare e rispettare. Forse, anche per Hamaguchi la natura intesa come entità è priva di “male” e dotata di una sensibilità altra.
Il regista di Drive my car si allontana dai suoi caratteristici quadri urbani per inoltrarsi nel mistero delle cose naturali: una scelta nata grazie alla collaborazione con la compositrice Eiko Ishibashi, che vive in una zona rurale. Dalle differenti esperienze dei due artisti, Il male non esiste prende vita come progetto comune, riflessione sul contrasto tra l’artificialità della metropoli – con i suoi interni asettici e climatizzati, i ritmi innaturali e la progressiva “povertà” sensoriale – e la vita rurale scandita dal freddo, da delicati equilibri e dalla presenza di creature silenziose (alberi, animali). Nello script vengono trascritti episodi vissuti in prima persona dal regista (come quello dell’assemblea) e affiora, in crescendo, un grumo di violenza.
“Felice… chi comprende senza sforzo/ il linguaggio dei fiori e delle cose mute”, scrisse Baudelaire nella celebre poesia Elevazione, del 1857. In realtà nel film di Hamaguchi non esiste una “felicità” per chi abita nella natura, ma la tensione a un’armonia, una quotidiana operosità all’interno di una natura-cosmo dai tratti alieni e dai propri codici. Uno degli elementi più affascinanti del film è senz’altro il carattere animistico e inquieto del paesaggio naturale, che ci appare di per sé un “corpo” che respira, sibila, e talora pare emettere un sinistro movimento musicale di disappunto nei confronti della presenza umana.
Il piccolo nucleo familiare composto da Takumi e sua figlia Hana – segnati dall’assenza della figura materna e affettivamente trattenuti, afasici – ogni giorno è impegnato in un “viaggio conoscitivo” tra rami invernali, coltri di ghiaccio e specchi lacustri circolari e silenziosi. La luce e il gelo del paesaggio lo rendono parte di quell’universo astratto e sconosciuto che ci ospita. Il bellissimo incipit del film crea qualcosa di raro – una perfetta corrispondenza tra immagine e suono, tanto che sembra di assistere a un’inquietante sinfonia prodotta dalla foresta stessa. Hamaguchi lavora per confondere lo spettatore, mosso dall’intenzione di intensificare le sue capacità percettive ed emozionali: per molti aspetti il film ha carattere iniziatico.
Il piano sequenza iniziale, così come altri movimenti misteriosi – il camera car lungo il sentiero, o altre immagini di cui ci viene rivelato il carattere “soggettivo”, servono a sovvertire il nostro senso comune e ad aprirci all’esperienza della natura. Pervasi dal bianco della neve, dal cristallo dei ghiacci e dall’intrico dei rami (che sembra quasi comporre un linguaggio grafico, un alfabeto) procediamo lungo il film con un senso di stordimento, talora inebriante, altre volte colmo d’angoscia.
La natura di Hamaguchi, profondamente espressiva e dotata di una presenza arcana, ha molto in comune con la foresta minacciosa di Charisma (1999) di Kurosawa Kiyoshi: anche in quel caso ci trovavamo di fronte a un mondo naturale “inaccessibile” agli inesperti, eppure di grande e rovinoso magnetismo. Nel film di Hamaguchi, come in quello di Kurosawa, lo spazio ambientale lascia emergere scontri, caratteri: la sensazione è quella di un mondo dalla purezza intangibile e severa, eppure estremamente fragile e turbato dalla presenza umana. Mentre sullo schermo appare volto di un cervo, o scorre il reticolato dei rami contro il cielo, ci chiediamo: chi davvero guarda, chi viene guardato? Il male non esiste ci dà la sensazione di essere giudicati dagli alberi, osservati da un universo cui l’essere umano non riesce ad aderire se non portando un cumulo pulsionale irrisolto.


