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I film di Oz Perkins (The Blackcoat’s Daughter) sono caratterizzati da uno studio minuzioso della composizione dell’inquadratura che nulla lascia al caso: la messa in scena è rivelatoria, la posizione degli attori e degli oggetti ha valenza simbolica. In Gretel e Hansel la bravissima Sophia Lillis è oggetto di un feticismo “mistico” da parte del regista: la luce posta sul suo capo ne fa una santa e martire riconducibile alla pittura sacra; mentre gli angoli di ripresa la collocano in posizione centrale e predominante, per mettere in risalto la sua natura di “illuminata”. Perkins osa citazioni alte, evocando la Jeanne d’Arc di Dreyer attraverso primi piani spirituali della Lillis, i cui capelli corti e viso sofferente si prestano come figure retoriche della memoria.
Gretel e Hansel possiede una forza visionaria incantatoria: il regista crea un effetto di rarefazione attraverso l’indefinitezza atmosferica in cui avvolge i personaggi. Il grigio, la nebbia, la notte e l’oro di una luce irraggiungibile – un richiamo a una realtà altra, di cui Gretel si fa interprete – trasformano il film in una fiaba sinistra dalla forte impronta classica. Oltre ai fratelli Grimm, sono presenti iconograficamente anche Alice nel Paese delle Meraviglie di Carroll (Gretel appare a volte “ingigantita” prospetticamente), Coraline di Gaiman (per il costante passaggio tra le dimensioni, mediante porte, finestre, cunicoli) e La Bella e la Bestia (la tavola imbandita dove la ragazza si siede riluttante). Perkins fa un lavoro di grande bellezza sui topoi della favola e ci immette in un mondo in cui le nostre memorie infantili si riaffacciano in superficie, sovrapponendosi tra loro con la grazia di dissovenze incrociate, sequenze oniriche e boschi mormoranti.
La sensibilità di Perkins per l’orrore fiabesco è palpabile, naturale: il suo immaginario vi trova dimora, materializzando indicibili angosce nei confronti del mondo “grande e cattivo“, come ripete spesso Gretel al fratellino; ci troviamo di fronte ad un racconto di formazione condotto attraverso i codici dello stupore infantile.
Ma il film ha debolezze che ne minano il valore: Perkins non ha ancora trovato una voce sufficientemente personale e non riesce ad emanciparsi dal sentiero folk horror già esplorato, in forme più affascinanti, da registi quali Ari Aster (Midsommar) e Robert Eggers (The Witch). Là dove Aster ed Eggers irrompevano con una forza visionaria e il desiderio di sovvertire il senso comune dello spettatore, precipitandolo in vortice di meraviglioso indicibile, Perkins trattiene: il suo è cinema afasico, nonostante gli intermittenti monologhi e le voci off. L’immagine, sebbene preziosa, si blocca in una sorta di rinuncia timida: il narrato resta irrisolto, appena evocato.
Inoltre le frequenti apparizioni di simboli (triangoli, stelle a cinque punte) sembrano facili concessioni di marketing sulla scia del recente film canadese Antrum (che millantava la presenza di messaggi diabolici subliminali). Il film di Perkins condivide con Antrum anche elementi di trama (i due fratelli, una forza divoratrice e maligna, il fuoco/fornace) e gli omaggi lirico/naturalistici a Picnic ad Hanging Rock.
Gretel e Hansel resta un’opera fragile e evanescente, ma capace di squarci d’incanto, compresa la prova della Lillis. La sua Gretel, dapprima tesa e contratta, si scioglie lentamente nella libertà; il suo viso mutevole e ombroso è capace di congelarsi nell’orrore di un grido o farsi selvaggio come un fenomeno naturale. L’innocenza si scopre dionisiaca, specchiandosi nel sangue e nelle notti di luna piena.
A me è sembrato un film abbastanza moscio